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Senza il tè di zio Alì

Laura Silvia Battaglia
28 febbraio 2018
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Se ne è andato Hajj Ali Al-Amrani, il proprietario della sala da tè più famosa di Sana'a, la capitale dello Yemen. Aveva un'età indefinita e un carattere burbero, ma era una sorta di istituzione.


È vero che ci sono divani e divani, salotti e salotti, consessi e consessi. E non è mica detto che i luoghi più confortevoli siano i più belli o i più forieri di storie. Ma quel che è certo è che quando questi luoghi mancano e, di più, mancano coloro che ne sono le anime e i padroni di casa, ciò vuol dire che le ore spese lì erano davvero indimenticabili.

In Yemen è successo un paio di giorni fa, quando la città di Sana’a, la storica capitale del Paese ancora in guerra da tre anni, si è svegliata con una notizia che non avrebbe voluto sentire: Hajj Ali Al-Amrani, il proprietario della sala da tè più famosa della città, è morto.

Di fatto, Ammo Ali (zio Alì), ormai anziano e di un’età indefinibile – forse più di 80 anni, forse no – era malato da tempo e la notizia sarebbe potuta arrivare anche prima. Ma nessuno ci voleva credere e tutti speravano che arrivasse il più tardi possibile. Quando, però, al mattino di un paio di giorni fa, Ammo Ali non ha aperto la sua abitazione alle usuali cinque del mattino e la porta della sala da tè è rimasta chiusa fino a mezzogiorno, era chiaro che qualcosa non andava.

I vicini hanno forzato la porta e dopo aver accertato la morte dello “zio”, hanno preparato la sala da tè per l’ultimo saluto. Sui social media le immagini con centinaia di yemeniti che si accalcavano alla sua porta per salutarlo prima del suo viaggio definitivo, sono diventate virali e hanno fatto il giro del web.

Perché Hajj Ali Al-Amrani era un’istituzione a Sana’a, e non solo per gli yemeniti ma anche e soprattutto per gli stranieri. La sua sala da tè, di fatto, era una bottega che si sviluppava in profondità su una sorta di terrazzamento per pedoni. La sua posizione, accanto alla moschea di Qubata-al-Mahdi, al limitare dell’area ad est di piazza Tahrir, s’affacciava sull’arteria della Saila, che circumnaviga ad anello la citta vecchia di Sana’a e che venne costruita dagli inglesi come circonvallazione utile per la sostenuta viabilità della capitale ma che, quando le piogge torrenziali di agosto cadono copiose sulla città, si riempie d’acqua, per la gioia dei ragazzini che si tuffano a gara in quel turbine nerastro.

La sala da tè di Ammo Ali stava sospesa sul terrazzamento prospiciente l’antica Medina: chi prendeva posto a quei tavolini aveva abbastanza aria davanti a sé per dare spazio ai pensieri e, soprattutto, poteva contemplare la città, sia quando il sole indorava i suoi palazzi color ocra al mattino sia quando il tramonto stendeva un’ombra violacea sui vetri delle qamariyat, le finestre colorate scontornate dal gesso.

Ammo Ali arrivava al tavolo con una certa fretta e con metodi spicci: in quel locale non aveva aiutanti o camerieri. Faceva tutto da solo, dalla preparazione del tè al servizio al tavolo. Chiunque era benvenuto sulla sua terrazza, comprese le donne sole, occidentali o locali, che in quel posto potevano star certe di non avere noie. Eppure, a casa del buon al-Amrani, si faceva amicizia facilmente o la si sceglieva come luogo di ritrovo: nonostante non ci si stendesse per terra, quello spartano caffè era più rilassante dei mafraj della città vecchia, e soprattutto, dava l’illusione di sedere in prima fila in una sala cinematografica, dove tutto ciò che si vedeva accadeva però rigorosamente dal vivo: dagli incidenti tra auto e minibus sulla Saila, a frotte di adolescenti che si sfidavano, sull’altra sponda della circonvallazione, su verso i giardinetti della città vecchia, in un elementare parkour tra le aiuole.

Ali non era esattamente un fan dell’igiene. Nelle diverse lingue, lo chiamavano «il lurido», ma con un’accezione quasi benevola. Osservando le sue teiere e le pentole che metteva sul fuoco se ne poteva intuire la ragione, ma quel dettaglio appariva insignificante agli occhi dei suoi avventori che adoravano il suo chai halib, il tè al latte.

Tuttavia, chi frequentava la sua sala da tè doveva però essere ben preparato su due aspetti dell’Ali-pensiero e mai manifestarsi contrario ad essi, pena l’essere cacciato fuori in malo modo. Ali conviveva con un esercito di gatti a cui donava generosamente cibo e coccole: guai a chiedergli il perché lo facesse e a dargli del «gattaro». Di base, la sua risposta era che si fidava dei gatti più degli esseri umani. E non ci sentiremmo di dargli molto torto. La seconda è che Ammo Ali odiava le fotografie: non si faceva mai fotografare e le sue reazioni erano estremamente scomposte, quando vedeva uno straniero brandire una Reflex. La ragione la spiegava sempre lui stesso: nella fotografia c’è un jinn, uno spirito maligno che ti ruba l’anima. Così Ammo Ali, inconsapevolmente, alimentava la sua leggenda negandosi a uno strumento che potesse immortalarlo per sempre.

Ma non aveva fatto i conti con un anonimo estimatore che riuscì a strappargli un ritratto, di nascosto, con un telefonino: qui Ammo Ali appare sorridente, intento a preparare il tè, quasi distratto da un pensiero che gli fa affiorare il sorriso sulle labbra. Sul banco, appena illuminato dalla luce del mattino, c’è uno dei suoi amati gatti. Questa foto è diventata l’unica e anche l’ultima per poterlo ricordare: chissà come avrebbe reagito Ammo Ali, soprattutto se avesse saputo che accanto alla sua immagine, rubata dal jinn della macchina fotografica, una mano pietosa aveva apposto, dietro le sue spalle, anche un paio di cuori rosa.

 


  

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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