Il processo penale contro Ahed Tamimi l’adolescente palestinese arrestata settimane fa durante una manifestazione anti-israeliana fa riflettere su molte contraddizioni della "guerra al terrorismo".
Non è difficile prevedere che il processo ad Ahed Tamimi, 17 anni compiuti da pochi giorni, l’adolescente palestinese arrestata durante una manifestazione contro l’occupazione israeliana e contro le decisioni del presidente statunitense Donald Trump su Gerusalemme, occuperà a lungo le cronache e non solo quelle. Contribuirà a questo la decisione del giudice della corte militare di Ofer, dove la ragazza è imputata, che ha deciso di procedere con udienze a porte chiuse, espellendo dall’aula non solo giornalisti e attivisti delle organizzazioni umanitarie, ma anche i diplomatici presenti come osservatori. Ma sono le condizioni di partenza a rendere comunque clamoroso il processo: Ahed è da anni una nota attivista; l’arresto e il processo (con dodici imputazioni, che potrebbero portare a una lunga pena detentiva) sono clamorosi e certo concepiti per dare un pubblico esempio, il video in cui lei aggredisce verbalmente i due soldati israeliani e poi li schiaffeggia ha fatto il giro del mondo, la rabbia palestinese (giustificata, perché Trump ha dato copertura politica alla strategia israeliana degli insediamenti, che invece la comunità internazionale condanna a partire proprio da Gerusalemme est) ha trasformato Ahed in un’eroina della causa, il bilancio delle manifestazioni, dallo scorso dicembre in qua, è stato, come sempre, drammatico, con 2 israeliani e 23 palestinesi morti. Credo che abbia un qualche peso anche l’aspetto di Ahed, che è bionda, non porta il velo e potrebbe essere scambiata per una qualunque ragazza europea o americana.
La personalizzazione e l’inevitabile spettacolarizzazione del processo rischiano però di mettere in ombra altri due aspetti, che sono invece decisivi nella strategia difensivo-repressiva di Israele nei confronti della reazione palestinese all’occupazione. Il primo è il coinvolgimento dei minori. Secondo i dati pubblicati dall’esercito e dal Servizio penitenziario di Israele, a fine novembre 2017 (quindi, prima delle manifestazioni causate dalle decisioni di Trump, con altri scontri e arresti) erano 313 i minori palestinesi a vario titolo detenuti (con il picco dell’anno nel mese di maggio: 331). A fine dicembre 2016 erano stati 319 (picco in marzo, 438), mentre a fine 2015 erano stati 422. Tra settembre 2000 e aprile 2012, secondo i dati forniti dall’Institute for Middle East Understanding (Imeu), sono transitati per le prigioni israeliane circa 7 mila minori.
Nel video diventato virale, si vede Ahed infuriata contro i due soldati di Israele. I quali, però, sono armati, protetti dall’elmetto e dal giubbotto anti-proiettile. Lei è una ragazza, alta la metà di loro, disarmata. Non è sempre così, ovviamente, e anche gli adolescenti possono compiere atti di violenza o attentati. Ma ciò che succede in realtà è che il pugno di ferro nei confronti dei palestinesi è accentuato dalla politica delle mani libere concessa ai coloni (ci sono abbondanti rapporti delle Nazioni Unite in proposito), dalle scarse condanne inflitte ai terroristi (israeliani) di Tag mehir e dalla generale benevolenza con cui vengono accompagnate le azioni dei soldati. L’ultimo caso è quello di Elor Azaria, il sottufficiale che nel 2016 uccise un attentatore palestinese ormai disarmato e inoffensivo e che, proprio per questo, è diventato per molti israeliani una specie di eroe. Il tribunale lo ha condannato a una pena del tutto simbolica, 18 mesi di carcere. Ministri e politici di primo piano lo hanno elogiato. Il canale televisivo Channel 10 lo ha proposto per il titolo di Uomo dell’Anno.
È la situazione in Palestina, ormai da molti anni. Certo, la Palestina vive un dramma particolare, con il “focolare ebraico” realizzato nel 1917 dal Regno Unito con un’operazione di stampo coloniale e dal 1967 in avanti difeso e allargato da Israele con una strategia di stampo neo-coloniale. C’è però un aspetto che in questa situazione emerge con particolare evidenza ma che in qualche modo ci riguarda tutti, perché entra nell’eterno dibattito sul terrorismo e sui mezzi per combatterlo.
I nostri Paesi hanno dichiarato, nel 2001, la guerra al terrorismo. Ma la guerra, quella che si faceva appunto dopo averla dichiarata, era un’altra, diversissima cosa. Si sapeva quando cominciava e si sapeva che finiva con la sconfitta militare del nemico. Il terrorismo non finisce con una sconfitta militare, come gli eventi in Siria dimostrano. Prosegue anche dopo la disfatta sul terreno. In più, non si può dichiarare una guerra a un terrorismo (anche se nella causa palestinese non c’è solo terrorismo, ovvio) che nasce come risposta all’occupazione militare e alla sottrazione dello spazio vitale. Applicando poi le leggi sui crimini di guerra (corti militari, detenzione amministrativa, processi come quello ad Ahed Tamim, e prima ancora, e altrove, Guantanamo) a ciò che, appunto, guerra non è. Quello che ne deriva è un mostro giuridico e umanitario che può ottenere solo due risultati: o più terrorismo o un regime così crudele da portare a un’oppressione di massa.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
—
Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com