(g.s.) – Prosegue a Gerusalemme la serrata della basilica del Santo Sepolcro decisa domenica 25 febbraio dalle autorità religiose responsabili del santuario. Una decisione eccezionale e rara, presa non a cuor leggero, nella consapevolezza di creare disagi, e qualche delusione, ai pellegrini che giungono in Terra Santa da ogni parte del mondo.
Poco fa, nel pomeriggio del 27 febbraio, l’ufficio del primo ministro israeliano ha diffuso un comunicato ufficiale secondo il quale il capo del governo Benjamin Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno deciso di creare una commissione tecnica, presieduta dal ministro per la cooperazione regionale Tzachi Hanegbi (del partito Likud), a cui parteciperanno rappresentanti di vari ministeri (Finanze, Esteri, Interno) e del Comune di Gerusalemme. Il gruppo di lavoro «dovrà formulare una soluzione sulla questione delle tasse municipali sulle proprietà ecclesiastiche non destinate a scopi di culto» e negozierà con i rappresentanti delle Chiese. Nel frattempo, la municipalità gerosolimitana interrompe le azioni intraprese nelle ultime settimane. Viene altresì sospesa, per il momento, ogni attività legislativa sulle terre di proprietà ecclesiastica. Si attende ora la risposta dei responsabili del Santo Sepolcro.
Un passo tanto drastico come la chiusura della basilica che racchiude il Calvario e il luogo della risurrezione del Signore Gesù è stato deciso proprio per attirare la massima attenzione – a livello locale e interazionale – sullo scontento e la protesta che da mesi i capi delle Chiese di Terra Santa manifestano nei confronti dalle decisioni di varie autorità israeliane. C’è in ballo, dal punto di vista degli ecclesiastici, la libertà d’azione dei cristiani in città, il rispetto di prerogative costantemente riconosciute in passato e fino ad oggi, e il diritto delle Chiese a disporre liberamente dei propri beni.
Qualche esito la protesta avviata domenica era stato subito raggiunto: la commissione che proprio quel giorno avrebbe dovuto discutere il progetto di legge sulle terre ecclesiastiche presentato alla Knesset dalla deputata Rachel Azaria, del partito centrista Kulanu, aveva differito il dibattito di una settimana. E intanto del tema si è discusso ampiamente sui media.
La Azaria sostiene che il suo intento non è danneggiare le Chiese, ma tutelare gli interessi dei cittadini israeliani che, soprattutto a Gerusalemme, abitano in edifici costruiti su terreni di proprietà ecclesiastica, ma con diritti di superficie ceduti in passato, e temporaneamente, al Fondo nazionale ebraico. Nel momento in cui le Chiese alienassero anche il diritto di proprietà, cedendolo a speculatori, lo Stato di Israele – secondo la proposta di Azaria – potrebbe intervenire su questi ultimi con provvedimenti che includono anche la nazionalizzazione delle terre appena acquisite. Misura – obiettano i responsabili delle Chiese di Terra Santa – che si applicherebbe in modo discriminatorio solo ai beni di provenienza ecclesiastica e che scoraggerebbe qualunque potenziale acquirente.
Sul quotidiano Haaretz si chiede Nir Hasson: «Cosa direbbe Israele se una cosa del genere fosse ipotizzata in un altro paese per i beni di proprietà della sinagoga?». Aggiunge il giornalista: se lo Stato, o il Fondo nazionale ebraico, davvero vogliono tutelare gli interessi dei cittadini (ebrei) perché non acquistano dalle Chiese i diritti di proprietà (di terreni su cui già esercitano il diritto di superficie) quando questi vengono messi in vendita, anziché lasciarli acquisire da speculatori?
La seconda questione che infastidisce i responsabili delle Chiese di Gerusalemme sono le azioni legali adottate dal sindaco della Città Santa Nir Barkat per incassare dalle istituzioni cristiane le tasse municipali (dette arnona) sugli edifici di loro proprietà non adibiti a luogo di culto, ma destinati ad usi commerciali (negozi, ristorazione, case di ospitalità o alberghi; ma come verranno considerate le scuole e le residenze?). Sono tasse che finora lo Stato di Israele, conformandosi a consuetudini precedenti, a Gerusalemme non ha mai preteso. Il sindaco Barkat, che rivendica un credito di 650 millioni di shekel (oltre 152 milioni di euro), con la sua iniziativa, ha lanciato un sasso nello stagno mettendosi in contrasto con le Chiese e con il governo. Per far fronte ai buchi del bilancio cittadino, dice di pretendere né più né meno di quanto ottengono Tel Aviv e altre città di Israele.
In una situazione di costante conflitto qual è quella della regione, anche simili questioni finiscono nel calderone dell’antagonismo tra israeliani e palestinesi (d’altronde sono palestinesi quasi tutti i cristiani di Terra Santa). Va ricordato che, insieme alla comunità internazionale, i palestinesi considerano il centro storico di Gerusalemme e i quartieri orientali della città «territorio militarmente occupato» da Israele nel 1967, e dunque contestano la legittimità dell’amministrazione municipale israeliana su queste aree.
Già domenica Saeb Erekat, uno degli esponenti di spicco e portavoce dell’Autorità Palestinese, si è affrettato ad esprimere solidarietà ai capi delle Chiese e a mettere in relazione gli ultimi sviluppi con la recente decisione del presidente Usa Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele (l’ambasciatore statunitense si trasferirà da Tel Aviv in città il 14 maggio prossimo, festa dell’Indipendenza dello Stato ebraico). «È ora – ha twittato Erekat – che il presidente Trump e la sua amministrazione comprendano le conseguenze del loro incoraggiamento alle politiche israeliane di occupazione e alla pretesa di esclusività su Gerusalemme. La drammatica realtà della popolazione palestinese a Gerusalemme, e in particolare delle nostre chiese, dovrebbe rammentarci la necessità di porre fine all’occupazione israeliana». Analogo il ragionamento del portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, che ieri calcava i toni in una dichiarazione alla stampa invocando una nuova insurrezione popolare (intifada) contro la «guerra di religione israeliana ai palestinesi e ai loro luoghi santi musulmani e cristiani».
Benché inconsueta ed eccezionale, la decisione di chiudere le porte del Santo Sepolcro in segno di protesta, o per segnalare un grave disagio, non è senza precedenti. In epoca recente è stata adottata dalle autorità religiose cristiane altre due volte (sia pur brevemente): nel 1990, per contestare l’insediamento di gruppi di ebrei israeliani non lontano dalla basilica, e nel 1999 per indurre il governo israeliano a bloccare la costruzione di una moschea voluta da un gruppo musulmano estremista a ridosso della basilica dell’Annunciazione a Nazaret.
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Clicca qui per il video, in lingua inglese, registrato domenica 25 febbraio sul sagrato della basilica del Santo Sepolcro per la lettura della Dichiarazione comune da parte del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Theophilos III.