La municipalità di Gerusalemme cerca di colmare il deficit del proprio bilancio. Le risorse fiscali a disposizione dell’amministrazione sono ridotte perché una porzione consistente della popolazione non ha redditi imponibili. Parliamo di due terzi degli abitanti: per metà ebrei ultraortodossi e per metà palestinesi non abbienti. È per questo, secondo i media israeliani, che la città intende far valere i crediti fiscali accumulatisi per anni sui beni delle varie Chiese cristiane adibiti ad attività commerciali. L’azione riguarderà anche gli immobili delle Nazioni Unite. Il municipio reputa di essere stato indebitamente privato di queste entrate e vorrebbe incassare circa 650 milioni di shekel (oltre 151 milioni di euro) tassando 887 proprietà delle Chiese e di organismi Onu come l’Agenzia per l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa).
La municipalità si avvale di un parere giuridico di Gabriel Hallevy, esperto di diritto internazionale, secondo il quale i beni immobili in questione non sono definiti legalmente come luoghi di culto o di preghiera e non possono quindi pretendere di essere esenti da tassazione. Il Comune di Gerusalemme prende in considerazione unicamente le attività commerciali, o altre non strettamente religiose, come, ad esempio, le strutture alberghiere, di ristorazione, di vendita di ricordi e articoli artigianali.
A tutt’oggi, per ragioni di carattere storico, Israele esenta le Chiese da questo genere di tassazione. Tuttavia, secondo Hallevy, questa posizione dello Stato ebraico è senza fondamento. Il consulente è anche convinto che gli accordi tra lo Stato e le Chiese non vincolino la municipalità di Gerusalemme, la quale è legalmente obbligata a recuperare questi crediti.
Per il momento, riferisce il quotidiano The Times of Israel, il Comune di Gerusalemme è riuscito a far apporre un vincolo sui conti bancari delle Chiese e assicura che questo non è che il primo passo. Il governo cittadino reclama dalle istituzioni ecclesiastiche il versamento di ingenti somme: 12 milioni di shekel (pari a circa 2 milioni e 788 mila euro) dalla Chiesa cattolica; 7 milioni (un milione 627 mila euro) dagli anglicani; 2 milioni (465 mila euro) dalla Chiesa armena; 500 mila shekel (116 mila euro) da quella greco-ortodossa.
L’arcivescovo palestinese Atallah Hanna, del patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, sempre dalle pagine di The Times of Israel denuncia la decisione dell’Amministrazione gerosolimitana. Israele, secondo lui, non ha il diritto di intervenire nelle questioni delle Chiesse. A suo avviso Gerusalemme è al centro di una «grande cospirazione» e il vero obiettivo di quest’ultima iniziativa sarebbe quello di «svuotare» la città delle istituzioni ecclesiastiche. Il metropolita ossserva che «le Chiese si trovavano a Gerusalemme prima della creazione dello Stato di Israele ed hanno sempre goduto di esenzioni dalle imposte, anche sotto la sovranità della Giordania e ai tempi del Mandato britannico». Secondo l’arcivescovo «le autorità occupanti tentano di cambiare questa realtà perché vogliono estendere il loro controllo su Gerusalemme, indebolendo ed emarginando in città la presenza dei cristiani in particolare e degli arabi e musulmani in generale. Noi non arretreremo davanti a queste decisioni ingiuste e sospette. Non collaboreremo con questa decisione e non soccomberemo alle pressioni e al ricatto israeliano», ha aggiunto parlando allo stesso giornale.
A mo’ di promemoria, rammentiamo che lo scorso settembre, con una dichiarazione congiunta, i 13 patriarchi e capi delle Chiese di Terra Santa avevano apertamente accusato Israele di voler «indebolire la presenza cristiana in Terra Santa», temendo di veder limitati i diritti delle Chiese sulle loro proprietà.
Stessa musica, riferisce l’agenzia d’informazione palestinese Wafa, da parte dell’Autorità palestinese che ha dichiarato, attraverso il proprio portavoce Youssef Al-Mahmoud, che «le autorità israeliane hanno nel mirino la città di Gerusalemme occupata e impongono ulteriori restrizioni per poter esiliare i palestinesi dalle loro terre e rafforzare la colonizzazione all’interno della città santa». Non va dimenticato che i cristiani di Gerusalemme sono, in gran maggioranza, d’origine araba.
Esercitando pressione sulle Chiese, il Municipio di Gerusalemme intende, in realtà, tirare in ballo lo Stato. Il sindaco Nir Barkat reputa che «i danni finanziari causati nel corso degli anni a Gerusalemme dalla politica statale sfiorino il miliardo di shekel (oltre 233 milioni di euro)» e non vuole che i cittadini di Gerusalemme continuino a pagare i servizi municipali (raccolta dei rifiuti, arredo urbano, manutenzione della rete viaria) anche per le Chiese e per gli uffici Onu.
Così, per il sindaco, due soluzioni si impongono. O il governo vuole che la situazione rimanga così com’è (rispettando gli accordi con le Chiese), e allora la città di Gerusalemme deve essere compensata dallo Stato, oppure l’amministrazione comunale esigerà il versamento delle tasse dovute, rigettando l’opposizione statale. La municipalità è pronta, se necessario, a comparire davanti all’Alta corte di giustizia. Secondo The Times of Israel gli uffici del primo ministro e i ministeri delle Finanze, dell’Interno e degli Esteri erano stati preavvertiti di questa mossa un paio di settimane fa.
Una nota a margine. La Santa Sede e lo Stato di Israele lavorano da anni (precisamente dal 1999) a un accordo in materia fiscale, giuridica e finanziaria attinenti alla vita della Chiesa cattolica in Israele. Si tratta di normare il riconoscimento dei diritti giuridici e patrimoniali delle istituzioni cattoliche e definire la questione delle esenzioni fiscali di cui la Chiesa già beneficiava alla creazione dello Stato di Israele (1948), come pure l’imponibilità o meno delle tasse municipali e delle imposte sui beni immobili di proprietà ecclesiastica, ma anche il regime di tassazione applicabile alle case di accoglienza dei pellegrini e le sovvenzioni pubbliche a scuole e ospedali. La conclusione dei negoziati continua a slittare di anno in anno.