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I cacciatori di caffè

Laura Silvia Battaglia
16 gennaio 2018
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Come coniugare, in Yemen, resilienza, cultura, economica locale, business globale, stile di vita intorno a una bevanda calda...


Si fanno chiamare «i cacciatori di caffè» e sono l’esempio migliore di come si possa coniugare resilienza, cultura, economica locale, business globale, stile di vita. Non solo. I «cacciatori di caffè» sono i re del diwan, coloro i quali passano le dogane con la loro preziosa merce, per poi trasformarla in una bevanda da bere distesi e rilassati, raccontandosi ogni cosa, e passando dalla politica alla poesia, fino alle vicende personali.

«I cacciatori di caffè» sono Mokhtar Alkhanshali e Hussein Ahmed e sono due yemeniti che, in tempo di guerra, hanno creduto fino in fondo al loro sogno: andare di nuovo alla ricerca della qualità arabica più pregiata di caffè e ricoltivarla nel Sud dello Yemen, vicino al porto di Mokka. Per poi raffinarla e trasformarla in un brand internazionale e in un business con diversi punti vendita, da San Francisco ad Aden, da Sanaa, alla Germania. I due uomini sono, di fatto, concorrenti ma si tratta di quella concorrenza virtuosa, soprattutto in una realtà ormai collassata, come lo Yemen in guerra, dove ogni iniziativa nata per favorire il mercato locale sul piano internazionale assume i contorni di un miraggio. Hussein Ahmed ha 37 anni e si è innamorato del caffè da bambino, seguendo il padre nelle sue puntate fuori città, per controllare il lavoro dei suoi coltivatori di caffè in montagna. I semi rossicci della qualità Mokka lo hanno sempre attratto e considera il caffè un bene nazionale: basti solo pensare che i sufi yemeniti utilizzavano il caffè (qawa) per favorire la concentrazione nella preghiera. E, ovviamente, lo consumavano nel diwan.

Di caffè, Ahmed sa tutto, e soprattutto sa riconoscere le quattro varietà locali che sono la udaini, la burai, la tofai e la dawairi. Esse crescono in altitudine e in un clima asciutto, come quello delle alture yemenite. Ahmed ha avuto la ventura di spedire il suo primo carico di caffè destinato al mercato internazionale proprio durante il blocco navale imposto dai sauditi ed è riuscito, con difficoltà, a farne arrivare due tonnellate a Oakland, in California, dove il caffè costa 150 dollari al chilo. Nello stesso tempo, Ahmed ha continuato a coltivare altre piante nei suoi terreni, ad acquistarne di altri e ha appena aperto un coffee shop nella capitale Sanaa, che porta il nome della sua azienda: Coffe shop Mocha Hunters. Soprendentemente, il caffè non è stato ancora chiuso dai ribelli del Nord, gli houthi e le foto del luogo e dei suoi impiegati e avventori (uomini e donne) circolano ampiamente sui social media.

Non lo stesso è accaduto al caffè aperto un anno fa dal suo concorrente, Mokhtar Alkhansali a Sanaa, chiuso dopo poche settimane con l’accusa di essere un’attività di business di concerto con gli “infedeli”. La storia di Mokhtar è tuttavia tutta estera. Mokhtar, nato come storico e divenuto poi imprenditore, è cresciuto tra Brooklyn, San Francisco e lo Yemen. Anche nel suo caso, ha iniziato ad appassionarsi alle proprietà di caffè della sua famiglia, recentemente, nel 2013. Subito dopo ha fondato la sua azienda, Port of Mokka, che sta avendo un notevole ampliamento commerciale e dà una mano concreta alla sostenibilità di questi lavoratori in madrepatria, oltre che rivalutare un’economia nuovamente basata sul caffè, come era in Yemen dal 1400 in poi, su una economia funestata dalla presenza del qat, la droga locale. L’avventura di Mokhtar è appena diventata un libro, The Monk of Mokha (Il monaco di Mokka), pubblicato dallo scrittore Dave Eggers che, in un centinaio di pagine con bellissime foto, racconta il primo appassionante viaggio di Mokhar, agli inizi della guerra, con i suoi migliori chicchi di caffè. In questo modo, l’atmosfera del diwan, è completa. Pagati i dazi doganali, non resta che distendersi, sorseggiare un buon caffè e leggersi questo bellissimo libro di viaggi e avventure contemporanee.

 


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).  

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