Nonostante gli appelli a ripensarci piovuti fino all’ultimo minuto da varie parti del mondo, Donald Trump ha tirato dritto per la sua strada e con un discorso televisivo d’una decina di minuti il 6 dicembre scorso ha varato un cambio di linea che sovverte 70 anni di politica estera statunitense su Israele/Palestina e distanzia – anche su questo versante – gli Usa dal resto del mondo.
Ora il governo di Washington riconosce formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e ha avviato il lungo iter per realizzare la sede della sua ambasciata in città. Il trasferimento da Tel Aviv – dove ad oggi sono tutte le rappresentanze diplomatiche presso Israele – potrebbe avvenire nel 2019 ed è previsto da una legge approvata dal Congresso degli Stati Uniti già nel 1995. Legge che però non aveva prodotto effetti perché tutti i presidenti succedutisi da allora (Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama) si sono avvalsi della facoltà presidenziale di sospenderne l’applicazione.
Secondo Trump il passo ufficializzato il 6 dicembre era dovuto e troppo a lungo rinviato: «Oggi noi finalmente riconosciamo ciò che è ovvio: che Gerusalemme è la capitale di Israele. Si tratta, né più né meno, di riconoscere la realtà». «Israele – osserva il presidente – è una nazione sovrana con il diritto, come ogni altra nazione sovrana, di determinare la propria capitale. Riconoscere ciò come un fatto è condizione necessaria per il raggiungimento della pace».
La linea della comunità internazionale e cioè di tutti i governi e le organizzazioni sovranazionali è che lo status giuridico della parte orientale della città, e di tutti i Territori palestinesi occupati militarmente con la guerra del 1967, è ancora da definire nel quadro di un trattato di pace tra le parti in causa, palestinesi e israeliani. Come questi ultimi, anche i palestinesi rivendicano Gerusalemme (o almeno i suoi quartieri orientali) come capitale del proprio Stato, se mai dovesse nascere.
La dichiarazione di Trump fa una curva a gomito laddove dice: «Questa decisione non vuole, in alcun modo, rappresentare un allontanamento dal nostro forte impegno a facilitare un duraturo accordo di pace. Noi vogliamo un accordo che sia un grande accordo per gli israeliani e un grande accordo per i palestinesi. Non stiamo prendendo posizione su nessuna delle questioni ultime, inclusi i confini specifici della sovranità israeliana su Gerusalemme o la definizione dei confini contestati. Sono questioni che riguardano le parti coinvolte». Parole che suonano come il tentativo di tornare a vestire i panni dell’arbitro dopo aver giocato, un minuto prima, in attacco con una delle due squadre in campo.
E infatti il discorso di Trump è stato duramente contestato dalle piazze arabe, come anche dai governi e da molti leader religiosi musulmani e cristiani del Medio Oriente. Dalla Striscia di Gaza il movimento Hamas ha esortato il popolo palestinese a sollevarsi in una nuova intifada.
Solo da Israele, e dalla galassia degli evangelici americani sionisti e apocalittici, sono giunti applausi a Trump. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ringraziato l’amico presidente per il suo coraggio ed esortato, senza esiti, «tutti i Paesi che cercano la pace ad unirsi agli Stati Uniti nel riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e a trasferirvi le loro ambasciate». Il premier ha poi aggiunto: «Voglio anche dire chiaramente che non ci sarà alcun cambiamento allo status quo dei luoghi santi».