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Quelli di Ka’et

Federica Sasso
18 dicembre 2017
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Gli spettacoli della compagnia di danza Ka'et in Israele fanno il tutto esaurito e portano in scena un’esplorazione dell’identità israeliana, offrendo spunti di riflessione a religiosi e laici.


A Gerusalemme c’è un ensemble di ballerini che indossano la kippah (il tipico zucchetto ebraico – ndr) e danzano tenendo assieme arte e fede. Le loro performance si nutrono di domande sull’identità ebraica nella sua “versione” israeliana. Interrogativi come: Cos’è successo all’ebreo esile e intellettuale degli shtetl (villaggi ebraici – ndr) europei ora che è anche israeliano e ha un fisico forte con cui combattere o giocare a calcio?

Ka’et è una compagnia esclusivamente al maschile, composta da danzatori non professionisti religiosi. Ognuno si guadagna da vivere con altri lavori (uno è rabbino, un altro assistente sociale), ma da sette anni il gruppo si ritrova quasi ogni giorno per provare e sperimentare sotto la guida del coreografo Ronen Itzhaki, l’unico laico. Itzhaki ha iniziato a lavorare con i religiosi 15 anni fa, e nel frattempo ha visto cambiare l’atteggiamento della società israeliana nei confronti degli uomini che scelgono di ballare. Nonostante gli studi di yoga a Tel Aviv siano pieni di uomini, e i papà siano pienamente coinvolti nella cura dei figli, l’idea che un israeliano si dedichi alla danza suscita ancora un po’ di stupore, mentre nelle comunità religiose provoca vera disapprovazione.

In realtà la danza è molto presente nell’ebraismo, e anche le componenti più tradizionaliste la usano per esprimere gioia in tante occasioni. Ballare a un matrimonio, però, è diverso dall’esibirsi o passare del tempo provando, e fino a qualche tempo fa era scontato che chi desiderava danzare dovesse operare una scelta fra l’appartenenza religiosa e il desiderio di esprimersi.

Ma Tra cielo e terra, il centro dedicato alla danza diretto da Itzhaki, conta un gruppo di studenti quasi esclusivamente ortodossi, e sono sempre di più le scuole religiose (yeshiva) di Gerusalemme che vogliono collaborare con Itzhaki.

L’arte di Ka’et tenendo insieme corpo e anima offre una riflessione interessante per tanti segmenti della società israeliana. Gli spettacoli della compagnia fanno sempre il tutto esaurito e portano in scena un’esplorazione dell’identità israeliana: Chi è l’uomo ebreo ora che ha “scoperto” la sua fisicità? È ancora religioso o intellettuale, ma anche kibbuznik e soldato. Nello spettacolo Eroi, per esempio, i ballerini indossano le tuniche bianche e nere dei religiosi alternate a pantaloni colorati e magliette. La musica elettronica accompagna movimenti ispirati al dondolio della preghiera, e inglobati in una danza intensa, che oscilla tra gioia e dolore. Durante una performance a Gerusalemme di qualche mese fa, un pubblico misto di laici e ortodossi è rimasto coinvolto dall’atmosfera creata dai quattro ballerini in scena. I loro corpi usati per interrogare Dio, ringraziarlo, esprimere dolore. E alla fine dello spettacolo quando le luci si sono accese si aveva la sensazione di aver partecipato a una celebrazione. In una società sempre più polarizzata fra laici e religiosi, l’esperienza di Ka’et è come un luogo d’incontro, che offre agli ortodossi la possibilità di fare arte restando coerenti, e ai laici una dimensione spirituale libera dagli stereotipi.

 


 

Perché S(h)uq 

Suq/Shuq. Due lingue – arabo ed ebraico – e praticamente una parola sola per dire “mercato”. Per molti aspetti la vita in Israele/Palestina è fatta di separazioni ed attriti, e negli ultimi anni è cresciuta la distanza fra la popolazione araba ed ebraica. Ma il quotidiano è fluido e anche sorprendente. Come a Gerusalemme i dettagli architettonici di stili diversi convivono da sempre uno vicino all’altro, anche le persone in questa terra non smettono mai di condividere del tutto. E il mercato è uno dei luoghi in cui questo è più evidente. Ebrei, musulmani, stranieri, immigrati, pellegrini. Ci si ritrova lì: per comprare, mangiare, vendere, ballare, e anche pregare. Questo blog vuole essere uno spazio in cui incrociare le storie, persone e iniziative che possono aiutarci a cogliere qualcosa in più su come va la vita da queste parti, al di là della politica e della paura.

  

Federica Sasso è una giornalista e vive a Gerusalemme. La sua prima redazione è stata il Diario della Settimanapoi da New York ha collaborato con testate come Il Secolo XIXl’EspressoAltreconomia e con la Radio della Svizzera Italiana. Da Gerusalemme scrive per media italiani e produce audio reportages per la radio tedesca Deutsche Welle. Per Detour.com ha co-prodotto documentari sonori che consentono di esplorare Roma accompagnati dalle voci di chi la conosce bene.

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