Per par condicio il Movimento non ha voluto svelare chi fosse il «Rabbino numero cento» fra i quattro nuovi rabbini ordinati lo scorso 16 novembre: Leora Ezrachi-Vered, David Laor, Rinat Safania-Shwartz e Yair Tobias. Lo Hebrew Union College di Gerusalemme è la roccaforte dell’ebraismo riformato (Reform) in Israele e ogni anno una classe di rabbini completa i suoi studi, ma le ordinazioni di quest’anno sono state celebrate in modo speciale. Con l’evento del 16 novembre infatti il movimento riformato ha superato la soglia simbolica dei cento religiosi ordinati in Israele, ed è un traguardo importante per questo ramo dell’ebraismo che in Israele continua ad affrontare ostacoli, dovuti soprattutto al fatto che la religione di Stato coincide con l’ortodossia del Gran Rabbinato. Il 16 novembre è stata anche la prima ordinazione con il coinvolgimento di una madre e una figlia: Leora Ezrachi-Vered, infatti, è la figlia di Naamah Kelman, preside del Hebrew Union College, che nel 1992 è stata la prima donna a diventare rabbino in Israele e che ha festeggiato i 25 anni di ordinazione. «All’epoca ero un oggetto estraneo, una marziana. Israele era diviso ancora più di oggi fra laici e ortodossi. Perfino dati, la parola ebraica per dire “religioso”, di fatto indicava solo gli ortodossi», ricorda rav Kelman.
Naamah Kelman, 62 anni, è nata a New York e ha fatto aliyah (cioè è immigrata in Israele) nel 1967. Lei e la figlia Leora appartengono a una dinastia rabbinica di dieci generazioni che conta nomi importanti. Il padre di Naamah, rav Wolfe Kelman è stato uno dei leader dell’ebraismo conservativo (Conservative) e ha contribuito a preparare il terreno perché l’ordinazione femminile fosse accettata. Rav Naamah si è impegnata perché Israele s’aprisse all’ebraismo liberale e dal ’67 a oggi il Movimento è cresciuto. Allora c’erano solo otto congregazioni riformate, oggi si contano 45 sinagoghe attive tutto l’anno e 15 centri utilizzati durante le festività ebraiche più solenni. Nonostante i passi avanti la comunità riformata si scontra tuttora con l’ostilità del Gran Rabbinato e ha pochissimo supporto da parte del governo. In Israele non esiste matrimonio civile e, per quanto riguarda l’ebraismo, il Rabbinato centrale è l’unica autorità in grado di certificare matrimoni riconosciuti dallo Stato, nonché di officiare funerali e sepolture.
Il movimento riformato offre una visione diversa da quella ultraortodossa, cioè un «ebraismo socialmente responsabile, paritario e pluralistico, perché crediamo che gli israeliani non debbano per forza vivere secondo una visione medievale imposta da alcuni rabbini», per dirla con le parole della rabbina Kelman.
Un esempio importante è il caso dei matrimoni. Sono sempre di più gli israeliani che volano a Cipro o in altri Paesi europei per sposarsi civilmente e poi tornare in Israele come marito e moglie, con il solo obbligo di convertire i documenti ed essere poi liberi di celebrare il matrimonio religioso con il rito che li rappresenta di più. Rav Kelman afferma che questa tendenza sta toccando anche i religiosi e che «ormai le femministe ortodosse non vogliono più sposarsi secondo le regole imposte dal Rabbinato».
Un’altra delle grandi battaglie in corso è quella per ottenere uno spazio presso il Muro occidentale (il Kotel, o Muro del pianto), nel cuore di Gerusalemme, ove uomini e donne possano pregare assieme. Il governo israeliano, il movimento delle Donne del Muro (Women of the Wall) e la leadership dei movimenti riformato e conservativo hanno negoziato per due anni. L’accordo raggiunto prevedeva la creazione di una zona mista nella parte meridionale del Kotel, ma l’estate scorsa il governo ha fatto marcia indietro creando una tensione enorme con le comunità ebraiche più liberali. Il 16 novembre una delegazione riformata composta da 150 rabbini e studenti – tra cui molti nordamericani – si è recata al Kotel per pregare prima delle ordinazioni. «Abbiamo fatto un gesto di disobbedienza civile, cercando di entrare con i rotoli della Torah», racconta la rabbina Kelman. La delegazione è stata attaccata, rabbini e studenti sono stati spintonati e fermati in modo molto brusco dagli addetti alla sicurezza e aggrediti verbalmente da religiosi ortodossi. «Per alcuni studenti e membri del nostro consiglio è stato un po’ traumatico sperimentare tutta questa rabbia da parte di altri ebrei», sottolinea la nostra interlocutrice.
La necessità di riconoscere i diritti dei membri dell’ebraismo conservativo e riformato, o la possibilità di pregare in una zona mista al Muro del pianto sono alcune delle questioni che premono sul delicato equilibrio fra lo Stato ebraico e la Diaspora, soprattutto quella americana. Ma rav Kelman crede che un cambiamento più deciso avverrà solo quando i temi che riguardano il rapporto tra Stato e religione avranno un valore elettorale. Nel frattempo i riformati in Israele continuano a rispondere alle esigenze di chi non si riconosce nel Rabbinato centrale. Tra le esperienze in corso nel Paese, da una ventina d’anni si parla anche di una Rinascita ebraica israeliana, una sorta di movimento nato dalla cultura rurale dei kibbutz e dei moshav e composto da gruppi di laici che si stanno riappropriando del proprio ebraismo. In generale questi gruppi rifiutano le etichette e non si definiscono riformati, ma una delle comunità ha chiesto a Leora Ezrachi-Vered di guidarla come rabbino. Ennesimo piccolo segnale della fluidità che si può sperimentare in Israele al di fuori delle comunità ortodosse.
Facendo un confronto con il passato riguardo alle questioni sociali, Naamah Kelman afferma che una differenza con Israele di venti anni fa è l’aumento del divario fra ricchi e poveri, e poi l’emergenza dei rifugiati in arrivo dall’Africa. Lo Hebrew Union College è un centro accademico e non prende posizioni politiche, ma incoraggia gli studenti ad essere attivi dal punto di vista sociale, «a camminare nel solco della nostra tradizione profetica», spiega la rabbina. Che poi aggiunge: «Un membro della mia comunità ha proposto di prendere otto rotoli della Torah ed andare tutti a Holot, il centro nel deserto del Neghev in cui il governo trattiene i richiedenti asilo (soprattutto dell’Africa sub sahariana – ndr). Questo è quello che dovremmo fare come movimento».