Gli effetti di una guerra su una società, un popolo, scorrono in tanti rivoli di un unico fiume di devastazione e disperazione. Per lo Yemen, strangolato da due anni e mezzo di conflitto, lanciato alla fine di marzo 2015 dall’Arabia Saudita e la coalizione sunnita anti-ribelli Houthi, le conseguenze belliche si traducono in scelte dolorose. In alcuni casi, per chi sta letteralmente morendo di fame (l’80 per cento della popolazione, 21 milioni di persone, ha immediato bisogno di aiuti umanitari) o di colera (già 700mila i contagiati da aprile, oltre 2mila i morti) la scelta passa per un viaggio in Egitto. Verso un ospedale compiacente per l’espianto di un organo.
Il fenomeno è in costante crescita, sebbene monitorarlo con precisione sia quasi impossibile: da quando è stata lanciata l’operazione saudita Tempesta decisiva, sono migliaia i casi di giovani e adulti yemeniti che accettano di vendere gli organi per racimolare soldi per il cibo. La destinazione è, nella stragrande maggioranza dei casi il Paese nordafricano, ormai da anni epicentro di un traffico che ha assunto proporzioni preoccupanti e che attira i disperati dell’intero mondo arabo, dalla Siria ai campi profughi siriani in Giordania e Libano fino alla Libia.
L’organizzazione è collaudata, una rete di intermediari che dai caffè delle città yemenite arriva fino alle cliniche egiziane e che si autoalimenta: chi ha donato un organo spesso accetta di divenire a sua volta un procacciatore. In cambio di denaro. A dare un’idea di costi e “servizi” sono state nelle settimane passate alcune agenzie arabe, da Middle East Eye ad al Jazeera: un organo – generalmente reni, cornee e parti del fegato – sull’illecito mercato clandestino vale intorno ai 5 mila euro. L’individuazione di nuovi “donatori”, mille o duemila.
L’intermediario avvicina i potenziali venditori e, una volta ottenuto un sì, li fornisce di documenti falsi: passaporto, carta di identità e cartella medica che attesta la necessità di un viaggio all’estero per motivi di salute. Tutto fasullo. Poi consegna un biglietto aereo per Il Cairo (gli yemeniti non necessitano di visto per entrare in Egitto) e il numero di telefono del secondo intermediario, in loco. Una volta a destinazione, il broker porta il venditore in un appartamento, dove resta per giorni senza la possibilità di uscire in attesa del proprio turno. Non è solo: i racconti raccolti dalle agenzie parlano di case che arrivano ad ospitare 10-15 “donatori” alla volta. Qui i passaporti vengono confiscati. Saranno restituiti solo ad organo espiantato.
L’ultima fase è quella ospedaliera. Gli yemeniti coinvolti raccontano di medici compiacenti che dicono ai pazienti cosa dire e cosa non dire: non stai vendendo un organo, lo stai regalando ad un parente. Che in genere è un ricco cittadino che arriva dal Golfo o da un Paese europeo e che giunge a pagare anche 50-100 mila dollari per l’organo di cui necessita. Di questi, il 10 per cento va al “donatore”, il resto all’ospedale e alla rete di trafficanti.
Pochi giorni di ricovero (se si è fortunati in un ospedale vero e proprio, se si è sfortunati in cliniche prive di licenza) e poi il ritorno in Yemen, senza alcuna supervisione medica o controlli regolari, necessari almeno ogni sei mesi dopo un’operazione di espianto. Gli effetti sono a lungo termine: secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 73 per cento di chi ha venduto un organo ha perso la capacità di svolgere lavori fisici mediamente pesanti, mentre il denaro ottenuto evapora in pochi mesi.
Secondo l’Organizzazione yemenita per la lotta al traffico di esseri umani, sarebbero centinaia se non migliaia i casi nel Paese. Certe volte, dice il direttore Nabil Fadhil a Middle East Eye, capita di intervenire in tempo: in passato, prima della guerra, l’associazione ha bloccato 300 individui pronti a partire. Ora, a causa delle oggettive difficoltà dovute alla guerra, alla mancanza di vie di comunicazione stabili, alla disperazione e all’assenza quasi totale di collegamenti tra una provincia e l’altra, l’impresa è ardua. Secondo Fadhil, sarebbero almeno 5mila i casi dall’inizio del conflitto, una media di cinque al giorno.
Si tratta per lo più di uomini, tra i 28 e i 40 anni, secondo i dati raccolti dal Sobol al-Haya Critical Care Hospital di Sana’a. Nove su dieci sono andati in Egitto. Lo scorso agosto la polizia egiziana di Giza ha arrestato 12 persone, tra medici e infermieri di diversi ospedali dell’area perché accusati di essere parte di «una più ampia rete specializzata nel traffico di organi umani». L’anno precedente stessa sorte era toccata ad altri 25 sanitari. La punta di un iceberg: l’Oms ha classificato l’Egitto come uno tra i primi cinque Paesi al mondo per traffico illegale di organi (1.500 “pazienti” annui).
Un giro d’affari su scala globale che conta una media di 10-11mila espianti l’anno, il 10 per cento del totale. Oltre all’Egitto, i Paesi cardine del traffico sono Pakistan, Cina e Filippine. Ma la “pratica” si sta ampliando anche in Turchia, Kosovo, Sudafrica, Brasile, Costa Rica. È qui che si praticano i trapianti, con i venditori che provengono da zone estremamente povere e i compratori che arrivano da Arabia Saudita, Israele, Giappone, Taiwan, Europa e Stati Uniti. Chi ha denaro si compra la salute, a scapito della disperazione.