Con una velata proposta degli Emirati Arabi Uniti e la risposta ufficiale del Qatar, anche il calcio è diventato strumento di confronto geopolitico.
Era inevitabile, prima o poi doveva succedere che il grande calcio fosse tirato per i capelli in una delle tante crisi politiche che agitano il globo. È già sorprendente che, almeno finora, non ci siano stati pasticci intorno al Mondiale che si disputerà in Russia l’anno prossimo, con tutte le contese che ruotano intorno al Cremlino e a Vladimir Putin (Ucraina, Siria, vero o presunto Russiagate negli Usa, il confronto con la Nato, la crisi e poi l’alleanza con la Turchia…). Possiamo semmai dire che il battesimo ufficiale del calcio come strumento di confronto geopolitico è avvenuto laddove meno ce lo saremmo aspettato sino a qualche anno fa, ovvero nel Golfo Persico.
Il Mondiale del 2022 sarà infatti ospitato dal Qatar, piccolo ma ricchissimo Paese che dal 5 giugno scorso è sottoposto a embargo e a un blocco terrestre, aereo e marittimo (con contorno di minacce) dai tre Paesi a lui vicini (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein) ai quali si è unito l’Egitto. Il Qatar non è solo, ha stretto alleanze con l’Iran e con la Turchia. Non di meno, si avvia a spendere 220 miliardi di dollari, tra infrastrutture, stadi e impianti assortiti, per far giocare il Mondiale in casa propria. Ed essere sotto assedio di certo non aiuta.
Da qualche tempo, inoltre, i media dei Paesi con cui il Qatar è in polemica sottolineano che l’assegnazione ad esso del Mondiale non è stata poi così trasparente, per usare un eufemismo. Che nei cantieri qatarioti gli operai, quasi tutti immigrati, sono sfruttati come schiavi (e le organizzazioni umanitarie confermano). Che il Qatar non ha tutti quei miliardi di dollari da spendere per il football. Infine è partito il vero messaggio: se il Qatar rinunciasse al Mondiale, anche l’embargo potrebbe essere ritirato.
Lo ha twittato, com’è di moda fare, il generale Dahi Khalfan, capo dei servizi di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti, che poi si è mezzo rimangiato la proposta (ha detto che si trattava di una «analisi personale») che nel frattempo aveva, com’è ovvio, fatto il giro del mondo.
Il bello è che dal Qatar hanno risposto attraverso i canali diplomatici ufficiali, dicendo che la Coppa del Mondo «non è negoziabile». In altre parole, si può transigere sui commerci, le alleanze, la politica, i diritti, il terrorismo (nelle mail di Hillary Clinton rese pubbliche durante la campagna per le presidenziali, sia il Qatar che l’Arabia Saudita figuravano come Paesi sostenitori dei gruppi armati radicali del Medio Oriente) e persino la condizione delle donne, su tutto, insomma, ma non sul pallone. Una ola, per favore.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
—
Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com