Continuano ad aumentare in Italia i giovani che decidono di studiare la lingua araba. Cosa li spinge? E le loro motivazioni reggeranno alla prova del tempo?
Un sito di solito bene informato sul Medio Oriente, Middle East Eye, dedica un servizio… all’Italia. O per meglio dire, ai giovani che si impegnano nello studio della lingua araba i quali, a detta dell’articolista, sono raddoppiati di numero nel 2016 dopo essere raddoppiati già nel 2015.
È di certo una buona notizia. Però l’indagine giornalistica si svolge soprattutto presso le Università del Nord e colpisce un fatto: le ragioni che attraggono i ragazzi verso questa lingua (o, meglio, arcipelago di dialetti) sono sempre in qualche modo drammatiche. Da un lato i massicci flussi migratori e il numero crescente di immigrati, dall’altro il terrorismo e le guerre che scuotono il Medio Oriente, dagli attentati delle Torri Gemelle del 2001 all’avvento dell’Isis. Terzo fattore: lo scetticismo generale nei confronti di quanto viene detto dai media proprio su questi temi e la speranza di poter verificare di persona imparando la lingua.
C’è una logica in tutto questo, per carità. Immigrazione e guerre sono tutti i giorni sulle prime pagine. Ma è anche giusto? E non intendo solo nei confronti dell’immagine del mondo arabo, fin troppo spesso, e molte volte strumentalmente, legata all’idea del conflitto, del fanatismo, del pericolo permanente. È giusto per questi ragazzi? È l’approccio per loro più proficuo?
Per spiegarmi meglio faccio un caso concreto, il mio. Ho provato a studiare l’arabo a metà degli anni Settanta, quando mi sono iscritto all’Università. Due anni di corsi, un’estate alla scuola per stranieri di Tunisi, poi l’abbandono in favore di un’altra lingua. In quegli anni la motivazione per scegliere l’arabo era economica. Nel 1973 c’era stata la guerra dello Yom Kippur dopo la quale i Paesi arabi, per punire l’Occidente schierato con Israele, avevano alzato i prezzi del greggio e ridotto le estrazioni, provocando quello che da noi fu descritto come «choc petrolifero», con le relative politiche di contenimento dei consumi e di austerità. I Paesi dell’Opec sembravano dover diventare decisivi sulla scena mondiale e negli anni successivi (arrivai all’Università di Torino nel 1976), appunto, l’arabo divenne materia di riferimento.
Successe però questo. I colleghi più bravi di me, una volta laureati, scoprirono che gli arabi del business parlavano inglese, gli affari si facevano in inglese, e insomma per avere a che fare con le petro-monarchie alla fine il più abbordabile inglese serviva più dell’arabo. Aver imparato bene l’arabo serviva a chi voleva trasferirsi in quei Paesi e soprattutto a chi lavorava nel campo della ricerca culturale: storia, archeologia, scienze politiche, eccetera.
Questo solo per dire che le motivazioni legate all’attualità possono essere traditrici quando si tratta di una materia così complessa. Curiosità e piacere, invece, funzionano sempre.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com