(g.s.) – Stavolta, forse, fanno sul serio. Annunciato il 17 settembre scorso, grazie alla mediazione egiziana, l’accordo di convergenza tra le due maggiori forze politiche palestinesi – Fatah e Hamas – muove i primi passi concreti.
Il 2 ottobre i ministri del governo di unità nazionale si sono trasferiti a Gaza. E il giorno dopo, per la prima volta dopo tre anni, l’esecutivo si è riunito sotto la presidenza del premier Rami Hamdallah, già alla testa dell’esecutivo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) che da Ramallah controlla i Territori palestinesi di Cisgiordania.
L’esecutivo assumerà il pieno controllo della Striscia che Hamas si è impegnato a cedere all’Anp dopo averlo esercitato in esclusiva dall’estate 2007, quando estromise, armi in pugno, gli uomini di Fatah.
Durante i tre giorni trascorsi a Gaza i ministri hanno preso contatto con il personale amministrativo locale alle dipendenze dei rispettivi dicasteri per fare il punto della situazione.
Hamdallah ha dichiarato che facendosi carico delIa Striscia il governo la amministrerà con le risorse disponibili. Occorrerà dare copertura agli stipendi dei dipendenti pubblici; assicurare una più puntuale fornitura di energia elettrica e acqua potabile ai quasi due milioni di abitanti; cercare di rendere più fluidi e continuativi i flussi ai valichi con Israele, o almeno con l’Egitto.
I soldi sono pochi e i danni causati nell’estate 2014 dall’operazione israeliana Margine di protezione sono ancora da riparare. La ricostruzione arranca da allora e il premier palestinese fa affidamento sui donatori internazionali che proprio nel 2014 si impegnarono a contribuire. Ora che Hamas fa un passo di lato i soldi potrebbero arrivare.
In realtà qualche incognita rimane: il processo di riconciliazione tra le due anime antagoniste della politica palestinese proseguirà nei prossimi giorni in Egitto. Si capisce che il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) vorrebbe il disarmo dell’ala militare del movimento islamista (le Brigate Izz al-Din al-Qassam). Cosa che al momento Hamas esclude. C’è poi il tema delle elezioni: è dal 2006 che i palestinesi non vanno alle urne per le politiche e le presidenziali. Quella volta gli elettori espressero sfiducia alla classe dirigente di Fatah – nelle cui file percepivano una diffusa corruzione – e premiarono i “duri e puri” di Hamas. L’esito del voto democratico fu rigettato dal governo di Israele e da molte cancellerie occidentali. Hamas si ritrovò isolato nella sua roccaforte di Gaza.
Da allora sono trascorsi 11 anni, ma le elezioni legislative vengono continuamente rinviate. Tutti temono di perderle e di trovarsi di fronte ad altre spiacevoli sorprese. Una situazione così anomala e ingessata non spiace a Israele, il cui governo ha già detto che non intende fare le spese della riconciliazione tra le forze politiche palestinesi. Dal suo punto di vista è molto meglio la frammentazione dell’avversario.