Il mio popolo abiterà in una dimora di pace». Bruno Hussar si ispirò a questo versetto del Libro di Isaia (32, 18) quando decise di fondare Nevé Shalom/Wahat al-Salam – era il 1974 – su una collina a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. Il significato è lo stesso, in ebraico e in arabo: «Oasi di pace». Secondo l’Ufficio di statistica israeliano, oggi vi abitano circa 250 persone, 50 per cento ebrei, 50 per cento palestinesi, tutti con cittadinanza israeliana. Metà e metà, la percentuale viene mantenuta stabile volontariamente. In questo villaggio unico nel suo genere non si coesiste, ma si convive. Per abitarvi non basta comprare una casa. È necessario prima far domanda: un comitato cittadino è responsabile della scelta. Oggi la lista d’attesa è molto lunga. L’Oasi attira chi crede nella pace come elemento di coesione. Ma allora perché non esiste un secondo Nevé Shalom/Wahat al-Salam? Questo villaggio ha ancora senso oggi, a più di quarant’anni dalla sua fondazione?
Parlare di un’oasi non è esagerato. Sole splendente, fiori colorati, uccelli che cinguettano: è quasi surreale. All’entrata del villaggio un piccolo cartello indica: Neve Shalom – Wahat al-Salam. Un nome diverso da quello che si legge sulle indicazioni stradali, Nevi Shalom, traslitterazione in arabo del toponimo in ebraico. Stranamente, la bandiera israeliana e quella palestinese sono l‘una accanto all’altra. Daud abita su questa collina da più di vent’anni. Parla arabo con un’anziana signora dai grandi occhiali; si rivolge a un ragazzino, in ebraico, subito dopo. Jeans, camicia e capelli a spazzola. Né kippah né kefiah sulla testa. A che metà appartiene, non lo si può indovinare. Le presentazioni sono necessarie: 40 anni, cristiano palestinese, cittadino di Israele come tutti gli arabi che abitano qui. La maggior parte dei palestinesi stanno al di là della barriera di separazione tra Israele e Territori. Ramallah è a soli 3 chilometri. Daud è comunque convinto che «il villaggio possa rappresentare un esempio concreto di convivenza tra israeliani e palestinesi».
All’inizio Nevé Shalom/Wahat al-Salam era solo un’idea. A fondarlo fu un religioso domenicano nato in Egitto da famiglia ebraica. Trasferitosi poi a Gerusalemme, organizzava incontri proprio su quelle colline, luogo calmo e disabitato, proprietà del vicino monastero trappista di Latrun. Lassù, si discuteva di religione e di temi legati al dialogo. Presto Bruno Hussar si rese conto che questi incontri, sempre più frequenti e frequentati, andavano al di là di un semplice dibattito. I presenti imparavano a conoscere l’altro, cercavano il dialogo. E, pian piano, l’idea di un villaggio comune si è concretizzata. «All’inizio si trattava di un agglomerato di semplici roulotte, senza acqua né elettricità. Ma quel gruppo non si è dato per vinto, forse proprio perché credeva in qualcosa». Daud racconta la storia di quello che oggi è il suo villaggio, fiero. «Così si è cercato di creare una zona comune. Qui impariamo che l’altro, il nostro presunto «nemico», non è che un essere umano. Non è scontato! Non amiamo definirci come un movimento politico. Lavoriamo con la gente, l’uno accanto all’altro».
«Questo villaggio è nato e si è sviluppato soprattutto grazie all’aiuto del monastero qui accanto e delle donazioni straniere», spiega Daud. Effettivamente, Nevé Shalom/Wahat al-Salam è costruito su un terreno che appartiene alla trappa di Latrun. I monaci sostenevano questo progetto e hanno deciso di donare queste proprietà agli abitanti. Ecco perché il villaggio non si è trasformato in città; ecco a cosa serve un comitato costretto ad accogliere un numero limitato di persone. Semplicemente, lo spazio è ridotto, trattandosi di un terreno privato. Forse proprio per questo motivo non si è ancora riusciti a creare un secondo Nevé Shalom/Wahat al-Salam. «Lo Stato di Israele non ci concede terreno, anche se ogni anno chiediamo le autorizzazioni. Per questo è impossibile accogliere tutti», continua Daud. Oggi più di 300 famiglie sono in lista d’attesa nella speranza di raggiungere Neve Shalom/Wahat al-Salam.
L’idea del comitato fa parte della filosofia di cooperazione del villaggio. «La comunità si costruisce ogni giorno: quando scegli di vivere qui, sai che dovrai collaborare in un modo o in un altro. Oltre al nostro lavoro, ogni abitante svolge un’attività per il bene della comunità». Questa, secondo Daud, è la grande differenza tra Neve Shalom/Wahat al-Salam ed altre realtà israeliane, dove molti palestinesi hanno deciso di rimanere, dopo il ’48, acquisendo la cittadinanza del nuovo Stato: «Per esempio, a Haifa molti palestinesi coesistono accanto alla comunità ebraica israeliana. Ma qui è diverso, non viviamo semplicemente l’uno accanto all’altro. Viviamo insieme».
E infatti le attività di integrazione non mancano. A partire da un asilo e una scuola elementare dove tra i bambini del villaggio non si fanno differenze. Per di più, il 90 per cento dei piccoli non è di Nevé Shalom/Wahat al-Salam, ma viene da fuori. Fin dai primi anni il programma comprende l’arabo e l’ebraico, ma anche l’inglese. E poi letteratura, tradizioni locali e programmi di risoluzione pacifica dei conflitti e non violenza. «Cerchiamo di fare delle differenze una ricchezza, senza cancellarle ma valorizzandole. A partire dalla scuola», spiega il nostro interlocutore. I suoi figli hanno studiato proprio su quei banchi. Inoltre, ogni anno vengono organizzati incontri, seminari e corsi di formazione per giovani palestinesi ed israeliani. Si tratta della Scuola di Pace. L’obiettivo? Capire, studiare il conflitto e le sue radici profonde. E farlo insieme. Dal 1979 più di 45 mila giovani hanno preso parte a questi incontri organizzati ad Aqaba, in Giordania. Una scelta motivata: in questo modo anche i palestinesi dei Territori possono partecipare.
La parola pace, a Nevé Shalom/Wahat al-Salam, si traduce in azioni. «La soluzione di uno Stato – uno solo, democratico, per tutti – è sperimentata ogni giorno», afferma Daud. Insiste: il villaggio non è un piccolo paradiso isolato, tagliato fuori dalla realtà del conflitto. Le tensioni esistono «e l’obiettivo è non dissimularle». Passeggiando per il villaggio, una donna si affaccia interessata. Guarda i visitatori, ci scruta dietro due lenti spesse. Si presenta e racconta: «Sono cresciuta qui e preferisco dirlo in arabo». È fiera delle sue origini: per lei, abitare a Nevé Shalom/Wahat al-Salam non significa dimenticare o annullare la sua identità. «Vivere qui significa guardare al futuro di questa terra, Israele e Palestina. Possiamo vivere insieme. Diversi, curiosi, nel rispetto dell’altro».
Ci crede, nonostante le notizie che ogni giorno la obbligano a scontrarsi con una realtà diversa. Il villaggio nato dal sogno di padre Hussar ha ancora senso? Daud reagisce quasi indispettito: «Ma certo! Nevé Shalom/Wahat al-Salam è la realtà. Esiste. Non è un’utopia. La presenza del mio villaggio è significativa, e lo è oggi ancora più di ieri: siamo un esempio di pace per il mondo intero».
Eco di Terrasanta 5/2017
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