Perché è tuttora difficile parlare e fare memoria dell’Olocausto? E che cosa si è disposti a sacrificare nella ricerca della verità?
Sono i due binari lungo cui si sviluppa Ha Edut (The Testament), il lungometraggio di debutto del regista israeliano Amichai Greenberg, presentato in concorso nella sezione “Orizzonti” della settantaquattresima edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia, appena conclusa.
Yoel Halberstam, ebreo ortodosso, è un ricercatore dell’Istituto internazionale di ricerca sull’Olocausto di Gerusalemme, fra gli studiosi di questo argomento più conosciuti a livello mondiale.
Lo vediamo impegnato in una battaglia legale contro una famiglia di industriali e il governo austriaci per il riconoscimento del massacro di duecento ebrei ungheresi, già condannati ai lavori forzati, da parte dei nazisti. Un eccidio avvenuto nel villaggio di Lendsdorf sul finire della Seconda guerra mondiale, nella notte fra il 24 e il 25 marzo del 1945, quando l’esercito russo stava già liberando il Paese e si trovava a soli quindici chilometri di distanza dal villaggio.
Nel terreno in cui si troverebbe la fossa comune in cui i cadaveri sono stati seppelliti, infatti, si progetta la costruzione di un complesso immobiliare, che renderebbe impossibile il recupero di qualsiasi traccia di quanto è accaduto, facendo così sprofondare l’episodio nell’oblio.
Nel corso della ricerca di informazioni che lo possano aiutare nella localizzazione precisa della fossa comune, con l’obiettivo di bloccare il progetto, Yoel esamina molte fra le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah secretate, scontrandosi con il disagio che tanti fra loro hanno provato nel raccontare la vicenda ai propri figli o che provano ancora nel ritornare a parlare di quanto hanno subito.
La ricerca di Yoel si farà ancora più complicata nel momento in cui si imbatte in un’intervista rilasciata da sua madre di cui non era assolutamente a conoscenza, e in cui la donna rivela un segreto insospettabile sulla propria identità e sul suo passato nei campi di concentramento, che metterà profondamente in discussione ogni convinzione religiosa ed etica di Yoel.
«Sono stato cresciuto con la consapevolezza che essere un ebreo osservante, nonché il figlio e nipote di sopravvissuti all’Olocausto, rappresentasse le radici della mia esistenza, la vera essenza della mia identità: qualcosa di più grande di me e della vita stessa», spiega Greenberg. «Da bambino ero incantato dalle storie dei miei nonni sull’Olocausto. Sono cresciuto tra storie eroiche, incredibili, in cui la vita e la morte erano separate da una linea sottile. Per me erano le migliori storie d’avventura che ci fossero».
La vita di tutti i giorni, però, «contrastava con questo dramma», aggiunge il regista. «Figlio di sopravvissuti dell’Olocausto, sono cresciuto in una famiglia priva di emozioni, dove sentivo che mancava sempre qualcosa. Qualcosa di sfuggente, che rimaneva innominato. Questo enorme abisso mi ha lasciato senza parole. Il copione del film rappresenta il mio sforzo per penetrare attraverso i muri trasparenti del silenzio».
Da film sulla Shoah a thriller psicologico, con una sceneggiatura e una regia essenziali ma rigorosi, senza alcun abuso del tema o tentativo di sorprendere.