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Saint Louis, un ospedale formato famiglia

Beatrice Guarrera
27 settembre 2017
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Esistono posti dove persone diversissime tra loro vivono e muoiono insieme. Posti come l’Ospedale francese Saint Louis, a ridosso della città vecchia di Gerusalemme...


A volte si crede di conoscerla, di averne in mente tutta la storia e i colori, di identificare gli uomini che vi abitano dai loro occhi e dai loro vestiti. Ma è difficile capirla davvero, Gerusalemme. La si potrebbe definire multiculturale e multireligiosa, eppure cosa significa concretamente? Che esistono posti dove persone molto diverse vivono e muoiono insieme. Posti come l’Ospedale francese Saint Louis, alle porte della città vecchia. I pazienti sono ebrei, musulmani, cristiani, atei. Sono israeliani, palestinesi, beduini o stranieri. Sono cittadini locali, lavoratori illegali, rifugiati, senza tetto. E insieme condividono la stanza dell’ultimo sorriso e dell’ultimo respiro.

Suor Monika Duellman dirige la struttura da tredici anni ed è abbastanza forte da non aver paura delle parole: «Le persone che muoiono ci insegnano che non c’è differenza tra di noi: se hai un cancro, hai un cancro. Non è importante a cosa appartieni o da dove provieni. Se sei malato, hai bisogno di aiuto». Con questa idea, mettendo la persona umana al centro e prima di tutto, il Saint Louis opera come centro di cure palliative per malati terminali, centro per malati cronici e residenza per anziani che non hanno un posto dove andare. E ognuno viene trattato secondo la propria specificità.

«Noi non vogliamo cambiare nessuno – afferma suor Monika -. Quando arriva qualche malato, gli diciamo: “Ci prenderemo cura di te con te nel modo in cui tu vuoi, nella maniera in cui tu sei”».

È tradizione infatti che tutti i malati festeggino le feste di tutte le religioni. La suora racconta che «Siano il capodanno ebraico, le feste musulmane o il Natale, tutti amano preparare e celebrare feste». Oltre a rispettare le ricorrenze religiose, c’è molta attenzione anche alle norme alimentari. L’Ospedale ha una cucina kosher e rispetta le leggi alimentari di ebrei e musulmani.

Per assistere i pazienti con il cancro all’ultimo stadio, in coma o gli anziani alla fine della vita, l’ospedale conta settanta dipendenti e venticinque volontari dall’estero (soprattutto Germania, e Francia; qualcuno da Olanda, Stati Uniti, Nigeria, India). Ognuno contribuisce a rendere più serena, per quanto possibile, la malattia dei ricoverati.

Il nosocomio iniziò a funzionare nel 1880 come ospedale generale, ma venne completato solo nel 1896. Dopo il 1948 il Saint Louis si trovò esattamente sulla linea verde del confine e la congregazione di suore che lo gestisce decise di costruirne un altro dall’altra parte della frontiera. Dopo un vuoto di due anni, la struttura sanitaria divenne un centro specializzato di cure oncologiche integrato nel sistema israeliano. Nel 1970 è diventato il primo ospedale del Paese per cure palliative.

Quella di suor Monika è stata una vocazione che si è sviluppata proprio nell’ospedale che dirige dal 2004. Gerusalemme la conquistò nel 1985 quando arrivò come studentessa. È tornata poi molte volte come volontaria nell’ospedale. Lì ha conosciuto la congregazione delle sorelle di Saint Joseph e decise di farne parte. Solo nel 1999 si è stabilita definitivamente a Gerusalemme. Oggi, con la sua allegria, il suo pragmatismo e le sue cinque lingue, è la colonna portante dell’ospedale. «Cerco sempre soldi per mandare avanti la struttura – racconta con un sorriso suor Monika –. Le sfide per noi qui sono imparare a vivere insieme, rendersi conto che i nostri pazienti stanno per morire, saperli salutare quando se ne vanno e aiutare le famiglie a farlo»

Nei suoi numerosi anni di esperienza, suor Monika è venuta a contatto con molte persone differenti. C’è una categoria che lei chiama “nonne russe”: sono le mamme dei coniugi non ebrei provenienti dall’estero in coppie miste. Non essendo cittadine israeliane, anche se sono nel Paese per prendersi cura dei nipoti, non possono avere diritti prima dei due anni. «Penso sempre a una donna – racconta la suora –. Stava molto male, ma non aveva copertura sanitaria e il medico andava a visitarla a casa. Non voleva darle molta morfina e lei soffriva moltissimo. Per questo cercava sempre di dormire. Quando l’abbiamo accolta in ospedale le abbiamo dato il doppio delle medicine e lei è stata subito meglio. Dormiva, si metteva seduta sul letto, parlava con i nipoti. Due settimane dopo la donna è morta, perché era molto malata, ma ha avuto due settimane per vivere un tempo migliore e parlare con la sua famiglia».

Oltre agli anziani, anche i rifugiati vengono accolti dall’ospedale. Quando suor Monika pensa a una delle loro storie, la sua mente va subito a una ragazza di sedici anni e alla frontiera tra Egitto e Israele, al tempo in cui chi cercava di varcarla poteva essere ucciso sul colpo. Presta la sua voce alla ragazza ed è come se fosse lei a parlare: «Stavo correndo sulla frontiera: la persona alla mia destra venne colpita e cadde, la persona alla mia sinistra venne colpita e cadde. Poi io ricevetti una pallottola, ma continuai a correre. Quando caddi ero nella parte israeliana del confine. Ricordo solo che vennero a prendermi dei soldati israeliani e mi salvarono». La ragazza sopravvisse e soggiornò un anno e mezzo all’Ospedale Saint Louis. Tre anni fa lo ha lasciato dopo aver imparato l’inglese, aver ripreso a camminare, aver ricevuto un computer dalla donazione di un ebreo per Yom Kippur. «È stato bello vedere come si è rialzata in piedi e la solidarietà da parte di tutti – sostiene suor Monika –. Si dice sia difficile accogliere i rifugiati. Io non faccio politica, ma so che quando hai davanti una persona concreta, l’approccio alla questione cambia. Questa persona è lì, ha davanti un futuro, puoi darle molto aiuto».

Tra le vite passate per il Saint Louis c’è anche quella di un ebreo ortodosso che credeva molto nell’arrivo del Messia. Un sabato questo signore è venuto a mancare, ma, a causa dello shabbat, la moglie non è potuta andare in ospedale. «Quando la domenica siamo andate a spiegarle di suo marito, ci ha detto che non era un problema non essere stata lì quando è morto, perché sapeva che era morto in famiglia – racconta suor Monika -. “Voi siete diventati la sua famiglia”, ha detto la donna. “Sapete quanto lui aspettasse l’arrivo del Messia e non è questo il tempo del Messia, quando persone di differenti nazionalità e religioni vivono insieme?”». Una storia forte, frutto della convivenza nel Saint Louis, che parla di «pace». Lo afferma suor Monika, che come non ha paura di pronunciare la parola “cancro”, non ha paura nemmeno di parlare con convinzione di “pace”: «La pace che tutti noi vogliamo è importante soprattutto per i nostri malati. Spero che vivere in un ambiente multireligioso e multiculturale, al centro di una città del conflitto qual è Gerusalemme, li aiuti finalmente a trovarla».

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