(m.a.b.) – «È ora che questa corruzione finisca!». I manifestanti stavolta non sono riuniti sotto le finestre del primo ministro israeliano (che pure, a riguardo, si trova in un momento delicato) ma sotto quelle del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Theophilos III.
Rispondendo all’appello di varie organizzazioni arabe, un buon numero di cristiani arabi ortodossi è convenuto qui, sabato 9 settembre, da diverse città di Israele (Akko, Haifa, Jaffa, Ramleh, Abellin, Nazaret) per consegnare al patriarca una lettera che chiede le sue dimissioni.
A Theophilos si rimprovera di vendere le terre e proprietà della Chiesa ortodossa agli israeliani (ebrei). Nel corso dell’estate in effetti, gli annunci in tal senso – sempre da fonte israeliana – si sono moltiplicati e sono balzate alle cronache la vendita della torre dell’orologio a Jaffa (uno dei luoghi tipici della città vecchia), la vendita del teatro antico di Cesarea Marittima, la vendita di terreni a Gerusalemme (nei quartieri occidentali).
I manifestanti hanno le idee chiare. «Parliamo di terre e beni della Chiesa e non di Theophilos e della sua cricca», dice Mou’in, che aggiunge: «In base a una norma interna della Chiesa ortodossa in Palestina, stabilita già nel 1923, il patriarcato non può decidere di alienare le proprietà che amministra senza riferire ai consigli parrocchiali eletti che prendono parte alla vita sinodale». Incalza Loubna: «Queste terre sono destinate alla comunità ortodossa. Devono andare a beneficio di noi ortodossi arabi».
Il movimento contro il patriarca ha avuto inizio a San Giovanni d’Acri (Akka in arabo). «Da noi, il patriarcato è proprietario di un terreno di 20 dunam (2 ettari) che confina con il giardino dei Baha’i. I quali hanno manifestato interesse per quell’appezzamento di terra. Ma noi della comunità di Akka siamo andati dal patriarca a dirgli che abbiamo bisogno di quel terreno per costruirci una scuola ed altri immobili. Cinquecento dei nostri bambini ogni giorno sono costretti a lasciare la città per andare a scuola altrove per mancanza di strutture. Abbiamo presentato al patriarca un progetto, ma nulla si muove».
Gladys ascolta e ci tiene a dire la sua: «E anche quando dovessero vendere, dove vanno a finire i soldi? Si parla di centinaia e centinaia di milioni. Bene, noi non vediamo neppure uno shekel reinvestito nei servizi alla comunità, né per le scuole né per le case. Niente!».
A Gerusalemme circolano molte voci sul tenore di vita all’interno del patriarcato greco. George reagisce: «Noi non badiamo alle voci, noi basiamo le nostre rivendicazioni sui fatti. Sono state fatte delle vendite, ma nessuno della comunità ne vede i frutti e la comunità ortodossa araba è trascurata da questi monaci greci che dilapidano il nostro patrimonio. Che fine fa il denaro?».
L’atmosfera è comunque tranquilla e i manifestanti esibiscono gli striscioni e si divertono con gli slogan. Stazionano davanti al patriarcato greco-ortodosso ellenico, secondo il nome completo assunto dall’istituzione nei primi anni dell’Impero ottomano, quando dei monaci venuti dalla Grecia assunsero il controllo del patriarcato greco-ortodosso fino a quel momento amministrato dal clero arabo. «La “Fraternità del Santo Sepolcro”, come si chiama, si occupa della conservazione dei luoghi santi, ma i monaci restano indifferenti alle sorti della comunità araba e ai suoi bisogni», lamenta Jacques con tono stanco.
Gli organizzatori della manifestazione si compiacciono del successo: «Ci aspettavamo 200 persone – dicono – ma siamo più di 300. Le consegne sono state rispettate e tutto è filato via liscio».
Simili manifestazioni furono inscenate in passato contro i patriarchi Diodoros I (1981-2000) e Ireneos I (2000-2005). Quest’ultimo fu destituito dal sinodo della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme perché accusato di aver venduto – fraudolentemente stavolta – delle proprietà del patriarcato in città vecchia.
Se è poco probabile che il patriarca Theophilos presenti le dimissioni, è certo però che le proteste e le contestazioni si moltiplicano e la morsa si stringe.