A novantun’anni d'età, in Israele fratel Yohanan Elihai ha pubblicato una nuova edizione del suo dizionario di arabo-ebraico. In poche righe la storia di questo Piccolo fratello di Charles de Foucauld.
In queste ore in molti hanno giustamente sottolineato l’intreccio tra calendari che ci ha proposto la concomitanza tra Rosh HaShanà – il capodanno ebraico – e l’inizio di Muharram, il primo mese del calendario musulmano. Queste concomitanze non sono solo strani scherzi dei mesi lunari, ma chiamate a scoprire la stessa voglia di incontro nella vita delle persone. Ed è per questo che i due capodanni paralleli mi hanno fatto subito venire in mente una notizia che ho letto con particolare gioia in questi giorni.
Sul sito internet del vicariato di San Giacomo – la comunità cattolica di espressione ebraica – ho scoperto infatti che a ormai più di novant’anni fratel Yohanan Elihai ha pubblicato una nuova edizione del suo dizionario di arabo-ebraico. La prima era uscita nel 1999 e conteneva circa 5 mila parole e 10 mila frasi; adesso ha raddoppiato: le parole sono diventate 10 mila e le frasi addirittura 15 mila.
La storia di fratel Yohanan è una di quelle che ho raccontato in Ponti non muri, il libro in cui già qualche anno fa per le Edizioni Terra Santa ho raccolto alcuni tra i cantieri di pace a mio avviso più significativi tra israeliani e palestinesi; quelli legati alla vita delle persone molto più che alla politica. I volti di una pace resiliente, capace di costruire relazioni anche quando il vento soffia in direzione contraria. Ecco: fratel Yohanan è un esempio straordinario in questo senso.
Nato in Francia (si chiamava Jean Leroy prima di scegliere il nome ebraico), vive in Israele dal 1956 con lo stile di condivisione proprio dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld. E la sua è stata prima di tutto la condivisione della sorte del popolo ebraico: è stato tra i pionieri di quella che allora si chiamava l’Opera di San Giacomo; e il «dono delle lingue» il suo grande servizio. Fu lui – infatti – grazie a una speciale autorizzazione del cardinale Eugène Tisserant, allora prefetto della Congregazione per la Chiesa Orientale – a effettuare le prime traduzioni del rito della Messa in ebraico, una decina d’anni prima del concilio Vaticano II. Intanto in Israele lavorava come ceramista: una delle esperienze più emozionanti per lui fu plasmare le scritte con i nomi dei campi di sterminio che si trovano nel memoriale dello Yad Vashem.
Prima di arrivare a Gerusalemme, però, i suoi superiori l’avevano mandato tre anni a Marrakesh a «buttar via» il tempo studiando l’arabo. «A cosa mai potrà servirmi?», si era chiesto. L’avrebbe scoperto proprio in Terra Santa, toccando con mano le difficoltà nel fare i conti con «la lingua dell’altro». Nonostante la presenza dal 1948 di una folta comunità arabo-israeliana, sono pochi – infatti – gli ebrei che parlano davvero l’arabo. E anche quando lo studiano a scuola viene loro insegnato l’arabo classico, che non è quello realmente parlato dai palestinesi. Così fratel Yohanan sceglie di mettere la sua grande abilità di linguista al servizio di questo tipo di incontro: trascorre ore e ore nelle case degli amici arabi ad ascoltare le loro conversazioni e a raccogliere vocaboli che nessun altro si era preso la briga di ascoltare. Quelle parole sono entrate nel suo Olive Tree Dictionary, il vocabolario della pace. Un impegno per il quale anche il mondo accademico israeliano lo ha pubblicamente ringraziato conferendogli nel 2008 una laurea honoris causa all’Università di Haifa.
Il fatto, però, che oggi esca a novantun’anni con una versione ulteriormente arricchita del suo dizionario la dice lunga su quanto questa sfida continui a coinvolgerlo in prima persona. Perché è la lingua a permettere alle persone di incontrarsi, così come sono. E magari anche a prendersi un po’ meno sul serio. Ricordo una sua battuta folgorante su quanti incontrandolo non capivano il suo voler condividere la sorte di Israele: «Ci sono europei che mi dicono: “Ma come? Tu fai parte di quel popolo?”. Io rispondo loro: “Sì, alcuni israeliani fanno delle cose orribili, altri protestano, si agitano. Ecco perché qui non mi sento solo…”».
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Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.