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Un altro modo per dire «Kosher!»

Federica Sasso
14 luglio 2017
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Un altro modo per dire «Kosher!»
Due addetti alla kasherut del Gran rabbinato esaminano i prodotti di una serra destinati all'alimentazione. (foto Yaakov Naumi/Flash90)

Oltre alle storiche tensioni fra laici e religiosi, negli ultimi anni in Israele si sono accentuate le divisioni tra le varie anime dell’ebraismo ortodosso. Anche riguardo alle regole religiose sugli alimenti.


Perfino il vocabolo kosher non è stato risparmiato dai conflitti interni alle comunità ortodosse israeliane. Oltre alle storiche tensioni fra laici e religiosi, negli ultimi anni in Terra Santa si sono accentuate le divisioni tra le varie anime dell’ebraismo ortodosso, con il Gran rabbinato di Gerusalemme accusato di arroccarsi su posizioni sempre più radicali riguardo a temi come il riconoscimento dell’identità ebraica, la legittimità delle conversioni o dei matrimoni religiosi. Nei giorni scorsi, per esempio, le comunità ebraiche fuori da Israele sono state colte di sorpresa dalla notizia di una “lista nera” in cui il Gran rabbinato ha inserito 160 rabbini della diaspora di cui non approva le decisioni rispetto a chi possa esser considerato ebreo o meno (e tra i 160 nomi compaiono anche quelli di importanti rabbini ortodossi americani).

In Israele però le tensioni coinvolgono aspetti molto concreti della vita quotidiana: come il cibo. Una delle battaglie più importanti oggi riguarda il controllo della kasherut, l’insieme di norme che regolano la preparazione e conservazione dei cibi considerati adatti secondo la religione ebraica. L’unico ente autorizzato per legge a supervisionare ristoranti, bar, hotel o mense scolastiche è il Gran rabbinato. Ma da anni è in corso una vera rivolta da parte di ristoratori e religiosi che lo accusano di rappresentare un monopolio inefficiente.

L’alternativa è nata dal basso, proprio a Gerusalemme, durante le proteste per il costo degli affitti che hanno coinvolto le più importanti città israeliane durante l’estate del 2011. Hashgacha Pratit, ovvero «Supervisione privata» è un’organizzazione fondata da cittadini «che non accettano la situazione», come si legge nel sito web della no profit. L’idea è arrivata quasi per caso, durante una conversazione fra il proprietario di un caffè situato all’interno di Mahane Yehuda, il famoso mercato coperto ebraico a Gerusalemme ovest, e il rabbino ortodosso Aaron Leibowitz.

Occhialini ovali, barba lunga e voce pacata (ma ironica), rav Leibowitz spiega che «il progetto non vuole in nessun modo metter in discussione uno stile di vita ebraico tradizionale. Quello che vogliamo smontare è la rappresentazione che l’establishment ortodosso sta proponendo di quello stile di vita, cercando di rimediare ai danni che secondo noi sono stati provocati nei confronti di una tradizione che ci sta a cuore». Eccessiva rigidità, richieste esagerate rispetto alle pratiche da rispettare o ai fornitori, e d’altro canto modalità di controllo non rigorose: tutto questo ha spinto ristoratori a unirsi in una protesta contro il Gran rabbinato.

Secondo Leibowitz uno dei problemi nasce dal fatto che «il Rabbinato è controllato da ultra ortodossi. Spesso gli haredim non si rendono conto che la severità delle loro posizioni ha un impatto molto forte sulla società». A questo si aggiunge il delicato equilibrio fra regole religiose e leggi dello Stato. La legge nazionale che regola la kasherut, consente di esporre un cartello con la certificazione kosher solo se rilasciata dal Gran rabbinato. «In pratica lo Stato ha consegnato nelle mani del Rabbinato il marchio kosher, afferma ironicamente rav Leibowitz.

Fino a quando Hashgacha è comparsa sulla scena non c’era via d’uscita per chi volesse continuare a servire una clientela religiosa senza collaborare con i supervisori ufficiali. Oggi l’organizzazione conta 33 clienti sparsi tra Gerusalemme, Tel Aviv e altri piccoli centri. Alla fine di maggio è arrivata anche una vittoria simbolica importante, quando l’hotel Eshel Hashomrom che si trova nell’insediamento di Ariel ha deciso di abbandonare la certificazione ufficiale per affidarsi alla guida della no profit.

Tutto questo è stato possibile grazie a un’intuizione che mette al centro la fiducia. «Il gestore del ristorante o del bar in questione dichiara che la fiducia del consumatore è un valore sacro che non verrà violato e si impegna a rispettare le leggi della kasherut», spiega rav Leibowitz. «In questo modo noi diventiamo i rappresentati dei diritti dei consumatori: ci occupiamo della formazione del personale e con visite a sorpresa identiche a quelle del rabbinato verifichiamo che il locale applichi le prescrizioni della kasherut. Se il patto di fiducia non viene rispettato noi avvertiamo la clientela comunicandolo pubblicamente». Questo ha creato un clima di rispetto e collaborazione fra ristoratori e supervisori, che molto spesso sono donne. «Le donne che lavorano con noi hanno ricevuto una licenza da parte del rabbinato, ma l’establishment religioso è così patriarcale che alla fine non vengono assunte», continua Leibowitz. «Ma se le donne non fossero in grado di supervisionare una cucina saremmo tutti in un guaio enorme visto che lo fanno regolarmente nelle nostre case!».

La creatività dell’associazione, però, non si ferma qui. I commercianti che si affidano ad Hashgacha possono dire ai propri clienti di essere un locale kosher, ma sarebbe illegale per loro esporre una targa o una licenza. Hashgacha consiglia di utilizzare sul sito web dei locali una frase che in ebraico significa: «Questo posto è kosher?», fornendo un link al sito di Hashgacha Pratit. Ma in ebraico la frase è composta solo dalle parole «Kosher qui?» che senza il punto di domanda diventa l’affermazione «Questo posto è kosher». «Ci è bastato non usare la “parola di sei lettere” nei nostri documenti, quasi come se fossimo in un libro di Harry Potter», scherza rav Leibowitz. «Grazie a un giro di parole garantiamo ai locali una supervisione secondo la legge ebraica che non viola la legge dello stato di Israele, e il procuratore generale ha affermato che siamo perfettamente legali».

Rav Leibowitz è un membro del consiglio comunale di Gerusalemme per la lista Yerushalmi, che include gerosolomitani laici e religiosi. Secondo Leibowitz, Hashgacha Pratit ha ricevuto un grande supporto dalle diverse anime della città perché «c’è una convergenza di interessi fra i laici che vogliono sfidare il monopolio del rabbinato per quanto riguarda gli aspetti della vita religiosa, e i consumatori ortodossi che desiderano un servizio affidabile per quanto riguarda il controllo della kasherut». E le migliaia di «Mi piace» sulla pagina Facebook della ong lo confermano.

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