«Seguo con trepidazione le gravi tensioni e le violenze di questi giorni a Gerusalemme. Sento il bisogno di esprimere un accorato appello alla moderazione e al dialogo. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera, affinché il Signore ispiri a tutti propositi di riconciliazione e di pace». Sono le parole pronunciate ieri, 23 luglio, da papa Francesco dopo la preghiera dell’Angelus recitata, come ogni domenica, dalla finestra del Palazzo apostolico che s’affaccia su piazza San Pietro.
L’auspicio del Papa riecheggia quanto espresso venerdì pomeriggio anche dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, dopo una giornata di preghiere, proteste e violenze a Gerusalemme e nei Territori palestinesi. Guterres s’è detto preoccupato ed ha esortato i leader israeliani e palestinesi ad evitare «azioni che potrebbero ulteriormente infiammare la situazione». Un appello a ridurre la tensione che il segretario generale dell’Onu rivolge anche a tutti i leader politici e religiosi. Guterres osserva che la dimensione religiosa dei luoghi santi deve essere rispettata, così che essi restino spazi per la riflessione e non per la violenza.
Oggi a New York, anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu si occuperà della questione, su richiesta dei governi d’Egitto, Francia e Svezia. A Gerusalemme è in arrivo anche Jason Greenblatt, l’uomo che il presidente statunitense Donald Trump ha incaricato di seguire da vicino il dossier israelo-palestinese. L’intento dichiarato della visita è di contribuire a svelenire il clima.
Di aiuti esterni c’è bisogno, perché le parti in campo non sembrano ancora in grado di smorzare i toni e trovare un compromesso sui nuovi controlli di sicurezza introdotti d’urgenza e unilateralmente dalle autorità israeliane ai varchi d’ingresso alla Spianata delle Moschee dopo un attentato del 14 luglio scorso.
Ieri, nelle dichiarazioni alla stampa che precedono la seduta settimanale del governo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito «una bestia» il non ancora ventenne palestinese che venerdì sera ha fatto irruzione in un insediamento ebraico in Cisgiordania uccidendo a coltellate tre persone. La sua casa, nel villaggio di Kobar, sarà presto demolita, come Israele abitualmente fa con le abitazioni dei palestinesi che si macchiano di azioni terroristiche. Da parte sua il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) conferma la chiusura di ogni canale di cooperazione con le autorità israeliane, mentre i leader di Hamas plaudono ad ogni attacco portato a termine dai nuovi «martiri». Che sono giovani o giovanissimi, poco più che adolescenti, come il 17enne che ieri ad Amman ha assalito a colpi di cacciavite una delle guardie dell’ambasciata israeliana in Giordania, mentre si trovava nel suo appartamento per montare dei mobili. L’israeliano s’è difeso sparando: il giovane, di origini palestinesi, è morto e suo padre ha detto di considerarlo, appunto, un martire. Israele richiama il personale diplomatico da Amman, ma le autorità giordane vogliono trattenere e interrogare la guardia che ha sparato. E s’apre un nuovo fronte di crisi diplomatica.
La Spianata delle Moschee, con la sua valenza religiosa, resta l’estremo baluardo del nazionalismo palestinese. In suo nome si accendono gli animi e si fanno strada anche i gesti più estremi.
Per giovedì 27 luglio, su richiesta della Giordania, è convocata una riunione della Lega araba. Vedremo che posizione assumeranno i governi. C’è più da temere il clima da guerra di religione e l’umore delle piazze musulmane in tutto il mondo, per quella che molti considerano – piaccia o no – come una nuova aggressione a uno dei maggiori luoghi simbolo dell’Islam.