Fa impressione scorrere nell’albo d’oro i nomi dei vincitori che l’hanno preceduto: Gianfranco Rosi per Fuocoammare nel 2016, Ermanno Olmi per Torneranno i prati nel 2015, e poi, proseguendo a ritroso, Edoardo Winspeare, Leonardo Di Costanzo, Gianni Amelio, Mario Martone, Giorgio Diritti, Marco Bellocchio e via dicendo, fino a Paolo Sorrentino e Marco Tullio Giordana. Mostri sacri del cinema italiano, che negli ultimi anni hanno meritato il Gran Premio della stampa estera durante l’annuale cerimonia dei Globi d’oro (uno dei tre riconoscimenti cinematografici più importanti d’Italia, con i David di Donatello e i Nastri d’Argento). Nomi illustri, ai quali mercoledì 14 giugno, a Roma, si è affiancato quello dell’assai meno noto Tommaso Santi, 42enne regista, drammaturgo e sceneggiatore pratese.
Restaurare il cielo, il suo documentario sui lavori in corso dal 2013 nella basilica della Natività a Betlemme (clicca qui per un breve trailer) ha davvero convinto i corrispondenti stranieri in Italia, come si evince dalla entusiastica motivazione: «Talvolta le favole escono dai film, si fanno spazio nella realtà e mostrano che c’è “un mondo possibile”. Un mondo dove intesa, accordo e collaborazione fanno sì che eccellenza artigiana e tradizione italiana arrivino a restaurare un pezzo della storia comune dell’umanità. Fatti che, di per sé, sono già un piccolo miracolo».
Si tratta, per Santi, di un altro passo avanti in una carriera in cui per due volte ha vinto il premio della giuria al Premio Ugo Betti per la drammaturgia, mentre sul fronte cinematografico nel 2006 è stato premiato al Premio Solinas per il suo cortometraggio Dall’altra parte del mare e nel 2012 è stato selezionato allo Short Film Corner del Festival di Cannes con il cortometraggio Perché no?, dove un bambino riesce a ricondurre alla ragione un aspirante suicida in equilibrio instabile sui bordi di un burrone vertiginoso. Da vertigine è stato anche il difficile e complesso restauro della basilica di Betlemme, realizzato dall’italiana Piacenti. E da vertigine sono le riprese con cui Santi documenta l’eccezionale recupero del tetto medievale devastato da due secoli di infiltrazioni d’acqua.
Vertiginosi sono pure gli splendenti e (finora) poco noti mosaici su cui sale e scende la sua macchina da presa. Un lavoro complesso, per il quale il regista e sceneggiatore sarà stato affiancato, come minimo, da un buon operatore e da un buon fonico… «Beh, a dire la verità, tutta la troupe è qui, davanti a lei», scherza Santi, con l’accento toscano così simile a quello dei suoi concittadini pratesi Roberto Benigni, Francesco Nuti, Giovanni e Sandro Veronesi… «Non si dovrebbe fare così, ma a volte, quando ne vale la pena, occorre il coraggio di fare le cose anche in modo sbagliato, pur di farle. Sono felice per questo premio così importante: forse c’erano film più belli del mio, ma alla fine si è capito che dietro a questa storia ci sono l’anima e il sangue di tante persone».
Com’è nato questo progetto così coraggioso? «Cesare Zavattini sosteneva che per cercare le storie bisogna prendere il tram. E un grande sceneggiatore come Furio Scarpelli sognava di avere un orecchio grande come una ruota di bicicletta, per riuscire ad ascoltare tutte le storie attorno a lui. La vera impresa, però, è riuscire a trovare storie che meritino di essere raccontate. Io ne sono sempre alla ricerca. Nel 2013 avevo letto che una ditta della mia città, Prato, avrebbe restaurato la basilica di Betlemme. Solo che, sarà perché sono piuttosto timido, anziché alzare il telefono ho lasciato passare un po’ di tempo: ben tre anni. Quando però lessi che, ultimato il tetto, si era passati a restaurare i mosaici, mi dissi che era l’ora di provarci. In realtà, quando chiamai i fratelli Piacenti ero convinto di sentirmi rispondere che ero arrivato tardi, che sul tema era già al lavoro una troupe di National Geographic Channel. Infatti chiesi se per caso non fossi il decimo a farmi avanti con una proposta del genere. Invece, come per miracolo, non solo nessuno s’era fatto avanti, ma i Piacenti si stavano proprio chiedendo se fare documentare il restauro con un volume, cosa che però richiedeva un impegno notevole. Così 15 giorni dopo ho preso un volo per Tel Aviv e sono sbarcato in Terra Santa, dove non ero mai stato prima».
Pronti, via. Senza ben sapere a cosa andare incontro, immagino… «In realtà avevo già delle idee su come raccontare un restauro che aveva tutto per essere eccezionale, e anche altamente simbolico. Invece, come spesso accade, appena arrivato a Betlemme ho capito che le mie idee dovevo metterle da parte. La basilica mi apparve subito come un luogo non raccontabile, che andava oltre l’immaginario di noi occidentali, abituati a cattedrali che impongono la loro presenza al centro delle nostre città. Invece quando arrivai sulla piazza della Mangiatoia dovetti chiedere: “Ma dov’è la chiesa?” Mi spiegarono che la facciata era quel muro anonimo e che si entrava da una porticina microscopica. Dentro, poi, vedevo solo impalcature, operai al lavoro, secchi messi qua e là per raccogliere l’acqua che filtrava dal tetto quando pioveva. In quei momenti capisci che i tuoi progetti sono sbagliati e che il luogo ti racconta tutta un’altra storia. È come se tu fossi in un luogo “altro”. Dove tutto quello che accade fuori assume una dimensione diversa, marginale. Vale persino per quel muro che divide Betlemme da Gerusalemme e che oggi impedirebbe il viaggio di appena otto chilometri documentato da un mosaico della basilica, con Gesù in groppa a un asinello». «La basilica della Natività – chiosa Santi – è però lì in piedi da 1.600 anni, in cui ha resistito non solo alla violenza della natura, ai terremoti, ma soprattutto alle violenze della storia. È forse l’unico luogo sacro cristiano della Terra Santa che non ha subito danni da rivolte e guerre nei secoli. Testimonia una resistenza, insomma. Testimonia la irrilevanza delle vicende umane di fronte alla bellezza di certi luoghi. Nella basilica c’è un ciclo di mosaici con una firma, Basilius pictor, ai piedi di uno degli angeli. Una firma che però non è messa per dare gloria a se stesso, ma per umiltà e riverenza nei confronti del luogo, come fosse una preghiera. L’artista si firma ai piedi dell’angelo, dai quali quasi si fa calpestare, come se chiedesse all’angelo di trasportarlo verso la grotta della natività. Poi c’è l’opera, umile e preziosa, di tutti questi restauratori più o meno trentenni la cui opera è destinata a restare nella Storia, perché sono i primi da secoli a mettere le mani su questi mosaici. Tutti felici e onorati di lavorare in questo luogo, ma senza che ciò li faccia sentire particolarmente bravi o importanti».
Che cosa le ha fatto capire tutto ciò? «Che dovevo fare un documentario classico – risponde Santi –, in cui il regista spariva per lasciare spazio alla realtà, una realtà piena di fascino e di emozione. Insomma, arrivando dall’Italia pensavo di fare un documentario politico, di dover raccontare di un restauro in una terra di conflitti, mentre il vero lavoro politico è stato un altro: è questo piccolo miracolo, l’accordo raggiunto fra cattolici, ortodossi e armeni per un restauro un tempo impossibile. Un segno di una portata simbolica enorme, che mette fine a un conflitto spesso sfociato in violenze fisiche. Inoltre questo restauro è stato realizzato anche grazie all’intervento dell’Autorità nazionale palestinese, espressione di uno stato a grande maggioranza musulmana. Un segnale concreto di pace vera, insomma. Anche ciò ha fatto sì che per me questa sia stata un’avventura stra-ordinaria, cioè fuori dell’ordinario. Lo capiscono anche gli spettatori: ogni volta che il documentario viene proiettato, in giro per l’Italia, suscita una partecipazione emotiva fortissima».
I restauri in cifre
In tre anni e mezzo di lavori nella basilica della Natività a Betlemme, la ditta Piacenti di Prato finora, utilizzando 2.800 metri quadrati di ponteggi, ha restaurato 130 metri quadrati di mosaico e rimesso a nuovo il tetto, ponendo in opera 20 tonnellate di legno antico, 200 chili di resina per legno, 55 mila viti, 2.000 metri quadrati di multistrato fenolico, 2.800 metri quadrati di lastre di piombo, 2 tonnellate di lana di Prato. Restaurate anche una porta armena restaurata e una colonna, mentre attualmente si sta lavorando ad altre quattro colonne. Impegnati in tutto 170 fra restauratori e consulenti.
I lavori proseguono ora con il restauro delle 50 colonne d’epoca giustinianea che si succedono all’interno della basilica: 32 sono decorate con pitture crociate del Dodicesimo secolo, oggi ricoperte da secoli di incrostazioni. Da sotto la patina, ritratti di santi d’Oriente ed Occidente accompagnano i passi del pellegrino fino al presbiterio.
Il costo previsto per l’intervento, sempre a cura dell’impresa Piacenti, è di 2 milioni e mezzo di euro, vale a dire circa 50 mila euro per colonna.
Se in seguito si deciderà di metter mano anche al restauro dei mosaici pavimentali della basilica costantiniana – che si trovano a un livello inferiore rispetto al pavimento attuale – saranno necessari, secondo la Piacenti, altri 2 milioni e 500 mila euro, che andrebbero ad aggiungersi agli interventi (per 800 mila euro) sull’attuale pavimento in pietra che è quello della basilica giustinianea (530-533). In tutto il cantiere verrebbe così a costare 18 milioni di euro.
Dal 2012 la basilica della Natività è riconosciuta dall’Unesco come patrimonio mondiale dell’Umanità. (r.c./g.s.)