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Marcel-Jacques Dubois e il dialogo con Israele

Terrasanta.net
15 giugno 2017
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Marcel-Jacques Dubois e il dialogo con Israele
Padre Dubois impone le mani sul capo del gesuita padre David Neuhaus il giorno della sua ordinazione.

Il 15 giugno di dieci anni fa moriva a Gerusalemme il teologo e filosofo domenicano Marcel-Jacques Dubois, personalità di punta nel dialogo con il giudaismo. Un libro gli rende omaggio.


(g.s.) – Dieci anni fa, il 15 giugno 2007, moriva a Gerusalemme, all’età di 87 anni, padre Marcel-Jacques Dubois, domenicano francese, teologo e filosofo. Dal 1962, su impulso del confratello padre Bruno Hussar, Dubois fu inviato in Israele a far parte di una piccola comunità di religiosi del suo Ordine particolarmente impegnati nel dialogo con il giudaismo. Quella terra divenne la sua casa fino all’ultimo dei suoi giorni terreni. Presto divenne una personalità nota e stimata dagli israeliani, anche al di fuori dell’ambiente cristiano. A lungo docente presso l’Università ebraica di Gerusalemme, ne diresse anche il dipartimento di Filosofia. Con il suo lavoro in campo culturale e accademico contribuì ad abbattere molti pregiudizi nei confronti dei cristiani. Profuse molte energie nella creazione di un confronto serio e rispettoso con l’ebraismo, che gli valse diversi riconoscimenti ufficiali. In seno alla Chiesa post-conciliare, i suoi scritti e i suoi interventi ebbero una grande influenza sulla generazione di teologi che lavorava alla ridefinizione delle relazioni ebraico-cristiane.

Le Edizioni Terra Santa ricordano Marcel-Jacques Dubois con un agile volume dal titolo Israele. La spiritualità del giudaismo, appena approdato in libreria. Il cuore del volume è una serie di brevi scritti su Israele popolo eletto, pubblicati dall’illustre autore nella rivista La Terra Santa nell’arco del 1978. Una chiave di lettura, quella di Dubois, ancor oggi preziosa per provare a decifrare il “mistero di Israele”.

Un saggio firmato dal gesuita padre David Neuhaus, vicario del patriarca latino di Gerusalemme per i cattolici di espressione ebraica, pubblicato come Prefazione, presenta la figura di padre Dubois anche ai lettori che non ne hanno mai sentito parlare. Una Postfazione del giornalista Piergiorgio Acquaviva offre poi una panoramica sugli altri protagonisti e testimoni di quella stagione di dialogo tra ebrei e cristiani in Israele a ridosso del concilio Vaticano II.

Di seguito proponiamo un brano del libro, tratto dal capitolo «Popolo della memoria e della speranza», firmato da Dubois:

***

La conoscenza che abbiamo del Talmud è sufficiente per convincerci che il giudaismo non intendeva affatto presentarsi come un insieme di dogmi, e ancor meno come un sistema filosofico. Ciò non toglie che la fede ebraica, come ogni fede, implica un contenuto intellettuale. Maimonide si è incaricato di riassumerne le massime convinzioni in tredici proposizioni a cui si può guardare come al Credo ebraico.

Queste proposizioni furono accolte dai rabbini con più favore di quanto non ne incontrasse la Guida degli Smarriti. Esse hanno il loro nido nella liturgia come un credo e sono lette alla sinagoga.

Ricordiamone brevemente il contenuto: 1) l’Esistenza di Dio, creatore di tutte le cose; 2) sua assoluta unità; 3) sua incorporeità; 4) sua eternità; 5) il precetto di non servire e adorare nessun altro all’infuori di lui; 6) l’esistenza della profezia; 7) la superiorità della profezia di Mosè su tutte le altre; 8) la Torà è la Rivelazione di Dio a Mosè; 9) la Torà è immutabile; 10) l’onniscienza di Dio e la sua provvidenza; 11) la ricompensa e il castigo secondo le opere di ciascuno; 12) la venuta del Messia; 13) la risurrezione dei morti.

Tuttavia, anche se la religione ebraica riposa su una fede e se il contenuto di questa fede può essere esplicitato in una serie di proposizioni dottrinali, il giudaismo resta sempre fondamentalmente pragmatico, orientato verso la vita e verso l’azione. In ciò consiste quella parte di verità che si cerca di esprimere allorché si contrappone, in un contrasto che rischia di essere troppo semplicistico, il cristianesimo al giudaismo dicendo che l’uno è una ortodossia mentre l’altro è piuttosto una ortoprassi.

Nel corso della sua lunga storia non sono mancati all’ebraismo né i sistemi di filosofia speculativa, né le correnti di mistica contemplativa; però né gli uni né gli altri hanno modificato l’attitudine esistenziale di una religione volta all’osservanza e alla pratica. Ciononostante nel giudaismo tradizionale lo studio è considerato come un dovere per ogni israelita. L’ebreo osservante deve scrutare la Torà giorno e notte. Questo è un altro dei motivi per cui Israele merita di essere chiamato il “popolo del Libro”. È sorprendente che presso nessun altro popolo, in nessun’altra religione si trovi una così continua e così esigente tradizione di studio e di insegnamento. Il Talmud è nato da questa immensa fatica. Lo studio a cui ci riferiamo è innanzitutto meditazione della Legge considerata come regola di vita, per comprenderla o per applicarla. Ciò che si cerca in esso non è tanto una conoscenza teorica della Torà quanto l’acquisto di un sapere che ne renda l’adempimento più perfetto, più esatto e più fedele dei suoi precetti poiché è “una via che conduce alla vita”.

Perciò in questa prospettiva non vi è nessuna opposizione fra studio e pratica poiché, come sottolineava rabbi Aqiva, si tratta appunto di uno studio che conduce all’azione.

Il problema del rapporto fra fede e opere non si pone affatto nel giudaismo poiché la fede ebraica esiste veramente solo se è pienamente incarnata in una vita, santificata e regolata dalle opere della Legge. Fai e capirai.

L’osservanza dei precetti della Legge è, per l’ebreo credente, il modo di rinnovare personalmente l’Alleanza e di compiere la missione di Israele.

In quanto espressione delle esigenze dell’Alleanza, la Torà si estende a tutti gli aspetti della vita di Israele; le sue prescrizioni devono quindi abbracciare tutte le attività dell’individuo, della famiglia, della comunità, del popolo intero, in modo da fare di ogni gesto, di ogni azione, una mitzvah, cioè un atto di adempimento della volontà di Dio. L’esistenza ebraica è così consacrata in ogni sua tappa, dalla nascita alla morte, lungo tutto il corso dell’anno, attraverso i ritmi del tempo.

I dottori del Talmud, accoppiando la Torà scritta e la Torà orale, hanno elaborato la Halakha, per ricavare delle regole di azione e per applicare la Legge a tutte le circostanze della vita. Fin dall’inizio della tradizione rabbinica furono contati i precetti contenuti nella Torà e fu compilata la lista di 613 comandamenti. Indubbiamente questi comandamenti non sono tutti di uguale importanza. Tutti, però, in quanto mitzvot, hanno la stessa urgenza e lo stesso valore religioso: quello di essere stati comandati da Dio. Inoltre formano un organismo unitario perché è attraverso l’osservanza di tutta la Torà che Israele si santifica per Iddio.

Per capire la molteplicità dei riti della vita ebraica, i dettagli e la precisione dei precetti che la organizzano, bisogna restituirgli la viva fede che ne ispira la pratica, l’attaccamento all’Alleanza che ne giustifica la minuziosità e il rigore, in una parola l’amore che fa dell’osservanza la risposta a una elezione.

A questo riguardo il cristiano dovrebbe sempre ricordarsi che l’osservanza della Legge per l’ebreo credente svolge la stessa funzione mediatrice fra Dio e l’uomo che ha il Cristo per coloro che hanno creduto in lui. San Paolo stesso, peraltro così severo riguardo alla Legge, riconosceva con profonda compassione che gli ebrei, suoi fratelli, avevano «zelo per Dio». È questo fervore che anima la pratica delle mitzvot e conferisce all’osservanza il suo valore religioso.

La tradizione ebraica si è resa conto del pericolo di formalismo a tal punto che ha definito chiaramente ciò che fa il valore religioso e l’unità profonda dei comandamenti, nonostante la loro molteplicità: è la dottrina della kawanah o dell’intenzione. Già Hillel riassumeva tutta la Legge in un solo precetto fondamentale: quello dell’amore del prossimo3. La kawanah trasfigura dall’interno tutti i precetti proponendo a colui che li mette in pratica i motivi più alti e più interessanti. Si tratta in definitiva di adempiere la Legge perché è l’espressione della volontà di Dio, perché ogni mitzvah realizza e prolunga l’impegno preso da Israele verso Dio al momento della conclusione del Patto.

Per dirla in modo ancora più ampio e profondo, osservare la Legge significa per Israele rispondere alla sua vocazione e adempiere la sua missione che è di santificare il nome di Dio e rendere più prossima la venuta del Regno. Questa idea è espressa da un midrash dell’Esodo: «Quando gli israeliti fanno la volontà di Dio, il suo nome è esaltato nel mondo… Quando non fanno la sua volontà, il suo nome è profanato nel mondo…». Abbiamo visto come la Cabbala ha dato a queste intuizioni la loro orchestrazione mistica nelle speculazioni sull’Esilio e sul ritorno della Shekhinah. La dottrina della kawanah ha avuto nel Chassidismo una risonanza particolare: l’amore disinteressato che si esprime attraverso la kawanah illumina ogni osservanza, anche quelle che sembrano imporre un giogo e un peso gravoso; la kawanah è, sotto questo aspetto, fonte di una gioia che trasforma la vita.

Per l’ideale che propone e per la pedagogia di cui è lo strumento, la Legge fornisce e suppone allo stesso tempo una particolare concezione dell’uomo e della vita. Se il giudaismo non ha elaborato una teologia, possiede tuttavia una morale di cui è facile cogliere a grandi tratti i fondamenti e gli elementi principali. È chiaro che all’origine di questa dottrina morale sta la dottrina biblica della creazione. Ciò che a prima vista stupisce è la visione deliberatamente ottimista che il giudaismo ha dell’uomo e del mondo: tutto ciò che esce dalle mani di Dio è buono. Ne risulta una stima profonda dei valori creati. Ottimismo non solamente cosmico ma storico, che si traduce in una fiducia spontanea nel destino dell’uomo e del mondo. Il messianismo si inserisce in questa convinzione e la rinforza. Non è per caso che le grandi filosofie del progresso e dello slancio vitale sono state elaborate da pensatori ebrei.

Ciò non vuol dire che il giudaismo ignori la debolezza della condizione umana! A questo proposito si può dire che i primi capitoli della Genesi racchiudono tutta l’antropologia ebraica.

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