Gli attacchi terroristici di questi giorni nel Paese degli ayatollah fanno scontare a Teheran il fatto di aver ottenuto nella regione successi geopolitici superiori alla sua statura e alle sue possibilità.
Nelle tragiche vicende che in questi giorni investono l’Iran, da molti anni ormai disabituato a fronteggiare il terrorismo in casa propria, si può leggere anche una morale diversa, e più ampia, rispetto a ciò che gli eventi più direttamente suggeriscono. Il Paese degli ayatollah oggi sconta, anche nella forma di questi vigliacchi attacchi, il fatto di aver ottenuto successi politici superiori alla sua statura e alle sue possibilità. L’invasione anglo-americana dell’Iraq e l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, nel 2003, consegnarono a Teheran l’assegno in bianco del controllo strategico sul governo di Baghdad, dominato dai partiti sciiti. Capitale speso malissimo, aiutando l’ascesa del premier Nur al-Maliki e permettendo che questi applicasse una feroce politica discriminatoria nei confronti degli iracheni di fede sunnita che molto somigliava a quella, a fronti invertiti, del fu Saddam. Risultato: un terzo del Paese al tracollo e strada spianata per l’avvento dello Stato islamico (Isis).
Nell’agosto del 2014 è cambiato il premier a Baghdad (a Nur al-Maliki è subentrato Aidar al-‘Abadi) ma non la musica in Iraq. Le milizie sciite delle Unità di mobilitazione popolare, inquadrate nell’esercito ma di fatto indipendenti e addestrate sul modello dei pasdaran iraniani, sono sempre più spesso accusate di compiere veri crimini di guerra ai danni dei civili sunniti dietro il velo delle operazioni belliche condotte contro l’Isis. E per prevenire qualunque problema di ordine legale, il Parlamento iracheno, proprio alla vigilia dell’offensiva contro Mosul, ha approvato una legge che alle milizie concede una sorta di amnistia preventiva per qualunque eccesso possano commettere sul campo di battaglia.
È ovvio che nessuna critica politica può giustificare attentati come quelli commessi il 7 giugno contro il Parlamento di Teheran e il mausoleo di Khomeini. E altrettanto ovvio è che non esiste un terrorismo di serie A (quello che colpisce noi o i nostri amici) e un terrorismo di serie B (quello che colpisce chi ci piace meno). Però nelle difficoltà dell’Iran possiamo leggere anche la parabola di quei Paesi che a lungo hanno aspirato al rango di “potenza regionale” dimostrando di essere bravi soprattutto a distruggere. Come la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan, che ha a lungo sostenuto l’Isis per poi fare una rapida marcia indietro. E come l’Arabia Saudita di re Salman, impantanata nella guerra crudele dello Yemen, sconfitta in Siria e ora, a quanto pare, pronta a lanciarsi contro l’Iran in un’avventura che, in potenza, è ancor più disastrosa delle precedenti.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
—
Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com