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Le crisi del Medio Oriente si scaricano su Gaza

Giorgio Bernardelli
19 giugno 2017
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C'è allarme. Le prime avvisaglie di una nuova crisi alle porte rimbalzano dalle cronache di questi giorni che riferiscono del taglio dell’energia elettrica nella Striscia, dettato da una resa dei conti politica.


Tra i tanti anniversari che scandiscono questo 2017 in Medio Oriente ce n’è uno che è stato ricordato ben poco: il 15 giugno ricorrevano i dieci anni dell’inizio del blocco di Gaza, messo in atto da Israele e dall’Egitto dopo che Hamas assunse il controllo totale della Striscia. Dieci anni di valichi tenuti aperti solo quel tanto che basta a far sopravvivere un territorio tra i più densamente popolati al mondo, dove oggi vivono 1,9 milioni di persone in appena 360 chilometri quadrati. E scanditi da tre guerre che hanno ulteriormente aggravato la situazione.

Gaza resta un grande buco nero del Medio Oriente, uno di quei posti dove si preferisce non posare lo sguardo per non scoperchiare una pentola di contraddizioni che non stanno ovviamente tutte dalla stessa parte. Ma l’impressione è che – ancora una volta – presto ci ritroveremo di nuovo a farci i conti. E le prime avvisaglie si ritrovano proprio nelle cronache di questi giorni intorno alla questione del taglio dell’energia elettrica nella Striscia.

Come sempre accade, le radici della vicenda stanno ben più lontano. Nell’aprile scorso, nell’ennesimo round dello scontro tra Fatah e Hamas mai sopito in questi dieci anni, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha scelto la strada della resa dei conti: o il controllo di Gaza passa sul serio all’Autorità Palestinese oppure Ramallah smette di pagare a Israele le quote per l’erogazione di servizi come l’elettricità nella Striscia. Non ci voleva molto a immaginare quale sarebbe stata la risposta di Hamas. Ma Abbas è andato dritto per la sua strada e a quel punto anche il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, da cui dipende l’amministrazione di questi servizi, ha fatto altrettanto: ha annunciato che senza pagamenti avrebbe tagliato al minimo l’erogazione dell’elettricità a Gaza, cosa che puntualmente è avvenuta in questi giorni. La ragione ufficiale avanzata da entrambi è che Hamas raccoglie tasse dalla popolazione locale, ma quei soldi vengono utilizzati «per minacciare la sicurezza di Israele» anziché per i servizi ai cittadini.

Tutto questo non succede evidentemente da ieri. Ma il punto è che oggi il contesto politico generale del Medio Oriente ha reso molto più debole Hamas; e lo scontro nel Golfo con il Qatar – l’ultimo sponsor rimasto al movimento dei Fratelli Musulmani, nel cui alveo la formazione islamista palestinese si è sempre collocata – sta rendendo gli equilibri ancora più precari. Puntuale – dunque – torna la tentazione di dare una spallata a Gaza (e c’è chi parla addirittura di venti di guerra).

Come sempre, però, scoperchiare la pentola è un gioco parecchio rischioso, come già tre guerre dovrebbero aver dimostrato. Perché proprio le sofferenze della popolazione civile sono l’arma più forte che Hamas ha nelle sue mani per puntellare il proprio potere. Il taglio dell’elettricità è destinato infatti ad avere ripercussioni pesanti soprattutto sulla vita quotidiana nella Striscia: Gaza dipende infatti quasi interamente dalla rete israeliana per i suoi rifornimenti di energia; così oggi si ritrova ad avere elettricità solo per poche ore al giorno, con conseguenze facilmente immaginabili in strutture come gli ospedali. Tra l’altro una delle prime infrastrutture che Hamas ha provveduto a staccare per fare fronte alla crisi energetica sono gli impianti di depurazione delle acque. Così le fogne ora scaricano direttamente in mare, che diventa così sempre più inquinato. Ma il mare ovviamente non sta fermo e arriva anche sulla costa israeliana. E il proliferare delle alghe va a danneggiare anche i costosissimi impianti di desalinizzazione sui quali Israele conta per risolvere la questione del suo fabbisogno idrico (in una fotografia perfetta delle contraddizioni della politica dell’isolamento di Gaza).

Nel frattempo Hamas prova a correre ai ripari anche politicamente. Adeguandosi in fretta al mantra dominante nella regione: il nemico del mio nemico può diventare mio amico. Così dall’agenzia palestinese Maan veniamo a sapere dei contatti tra la nuova leadership del movimento islamista e Mohammed Dahlan, dieci anni fa il leader di Fatah a Gaza, il grande rivale, entrato però poi in rotta di collisione anche con Mahmoud Abbas. E guarda caso Dahlan ormai da anni vive ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, cioè sulla sponda politicamente oggi opposta al Qatar. Può darsi sia solo una mossa tattica di Hamas per uscire dall’isolamento. Ma anche questa rende bene l’idea del groviglio di contraddizioni e giochi di potere che non meno delle politiche di Israele stanno alla radice del dramma di questi dieci anni a Gaza.

Clicca qui per leggere l’articolo di Al Monitor sul taglio dell’elettricità a Gaza

Clicca qui per leggere il bilancio di Maan sui dieci anni del blocco di Gaza

Clicca qui per leggere l’articolo sul riavvicinamento tra Hamas e Dahlan

 


 

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A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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