Il 20 maggio Donald Trump incomincia a viaggiare all'estero nella sua veste di presidente degli Stati Uniti. Sarà anche in Israele e in Italia, ma la tappa più importante è la prima: quella in Arabia Saudita.
Comincerà dall’Arabia Saudita sabato 20 maggio il primo viaggio internazionale di Donald Trump nella sua veste di presidente degli Stati Uniti d’America. E – senza nulla togliere alle successive tappe a Gerusalemme e a Roma (dove mercoledì 24 incontrerà papa Francesco) – i due giorni del presidente Usa a Riyadh si annunciano come quelli politicamente più significativi per il Medio Oriente.
Non a caso i sauditi stanno investendo moltissimo su questa visita di Trump. E sappiamo già che – come purtroppo è tradizione in questi appuntamenti – il presidente americano porterà in dono un generoso pacchetto di nuove forniture militari (questa volta si parla di contratti per 300 milioni di dollari) e incasserà preziosi investimenti degli sceicchi nell’ammodernamento delle infrastrutture americane. Questa volta, però, le ambizioni di Riyadh sono ben più grandi rispetto agli affari; e per capirlo basta dare un’occhiata al sito internet che gli al Saud hanno aperto appositamente per questa visita di Trump. A colpire è innanzi tutto lo slogan posto accanto alle due bandiere degli Usa e dell’Arabia Saudita, Insieme per prevalere. La domanda ovvia è: prevalere su chi? La risposta politicamente corretta che verrà ripetuta ad alta voce durante le due giornate di Trump a Riyadh è «prevalere sulla minaccia terrorista e l’estremismo». E in questo senso va anche una serie di eventi collaterali, tra i anche un appuntamento dedicato a Twitter durante il quale il presidente che ama tanto cinguettare dovrebbe incontrare Malala Yousafzai, la ragazza pakistana icona della battaglia per l’istruzione delle ragazze che le è valsa il Nobel per la pace nel 2014.
A chi osserva il Medio Oriente di oggi – però – lo slogan «insieme per prevalere» non può non suggerire anche un altro livello di lettura: prevalere sull’Iran e sui suoi alleati. Anche per questo per domenica 21 maggio il governo saudita ha convocato 56 leader di Paesi arabi e musulmani per l’Arab Islamic American Summit, un evento durante il quale il presidente americano finito nel mirino per il cosiddetto muslim ban dovrebbe illustrare la sua visione dei rapporti con l’islam. Tra i leader invitati ci sono i re di Giordania e Marocco, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, i premier di popolosi Paesi dell’Asia come il Pakistan, il Bangladesh e l’Indonesia. Senza farsi grossi problemi i sauditi hanno invitato anche il presidente sudanese Omar al Bashir, accusato di crimini di guerra in Darfur dal Tribunale penale internazionale. Volti che messi tutti insieme sanno molto di grande adunata «contro l’espansione iraniana». Del resto nella cartella stampa online basta aprire il documento sul tema «Arabia Saudita e sicurezza regionale» per vederlo scritto nero su bianco. E non è un mistero che da settimane si parli di trasformare la «coalizione internazionale» che combatte nello Yemen contro le milizie sciite houthi in una «Nato del Golfo».
In questo quadro – come ricordavamo già qualche settimana fa – si inseriscono persino le aperture nei confronti di Israele. Pochi lo hanno osservato ma il volo che porterà l’Air Force One da Riyadh all’aeroporto Ben Gurion sarà un fatto storico: non sono mai esistiti, infatti, collegamenti aerei diretti tra Israele e l’Arabia Saudita. E proprio in queste ore Haaretz ha parlato anche di un’offerta di «normalizzazione» dei rapporti con i Paesi del Golfo e Israele, in cambio di un semplice «congelamento» delle costruzioni negli insediamenti e la ripresa di un negoziato quanto mai vago su contenuti e obiettivi. Un passo anche questo dettato molto più dalla comunanza di interessi contro l’Iran che da una reale preoccupazione per i palestinesi.
Va segnalato, però, che proprio in queste ore c’è anche chi va controcorrente rispetto al mantra dell’unità contro Teheran. Sul sito Al Monitor – tra i più interessanti oggi sul Medio Oriente – è uscito un articolo che pone una domanda ficcante dal punto di vista islamico: dopo la visita di papa Francesco ad al Azhar, a quando un’iniziativa per il dialogo tra sunniti e sciiti? La domanda è importante perché al Azhar ha una storia in questo senso; ma oggi – nel Medio Oriente dello scontro a tutto campo tra Riyadh e Teheran – questo tema è diventato tabù. E anche il tentativo analogo che i giordani avevano lanciato, nel 2004, con il Messaggio di Amman è naufragato nell’oceano delle contrapposizioni confessionali rinfocolate dai conflitti.
Le religioni non hanno solo il compito di condannare la violenza, ma devono anche giocare un ruolo attivo nella costruzione della pace, spiegava proprio papa Francesco nel suo discorso ad al Azhar. Ed è un discorso che vale anche per le relazioni tra quei musulmani che devono dire un po’ più chiaramente oggi se ci stanno oppure no a lasciarsi schiacciare dalla logica di alleanze settarie con la religione hanno ben poco a che fare.
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Clicca qui per leggere l’articolo di Haaretz sull’offerta di «normalizzazione»
Clicca qui per leggere l’articolo di Al Monitor sul dialogo tra sunniti e sciiti
Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.