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Tunisia, lo stato d’emergenza continua (e preoccupa)

Alessandra Bajec
27 aprile 2017
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Tunisia, lo stato d’emergenza continua (e preoccupa)
Un membro degli apparati di sicurezza tunisini.

Dopo gli attentati del 2015, la Tunisia sta vivendo un periodo di relativa calma e migliorata sicurezza. La minaccia terrorismo resta attuale a fronte di un possibile rientro dei tunisini partiti per combattere con l’Isis.


In Tunisia vige ancora lo stato d’emergenza riconfermato il 16 febbraio scorso e proclamato in tutto il Paese nel novembre 2015 in seguito all’assalto a un convoglio della Guardia presidenziale a Tunisi. Preceduto, nello stesso anno, da altri due attentati, al Museo del Bardo di Tunisi e alla spiaggia di Sousse, che hanno fatto più di 60 morti tra i turisti stranieri.

Stando a statistiche aggiornate, tra il 2011 e il 2015 la Tunisia avrebbe conosciuto 50 operazioni terroristiche. Secondo Alaya Allani, analista in islamismo e salafismo nella regione del Medio Oriente e Nord Africa, l’allarme terrorismo è emerso negli anni del governo ‘’troika’’ guidato dal partito islamista Ennahdha. In quel periodo, moschee integraliste, scuole coraniche dominate da imam fanatici, e associazioni caritative finanziate da paesi del Golfo per reclutare foreign fighters sono proliferate, sfuggendo al controllo dello Stato.

A generare la spinta jihadista in quelli anni, spiega l’analista, è stata anche la crisi in Libia, che ha avuto come effetto lo smantellamento delle strutture di sicurezza dello Stato, e l’indebolimento del controllo alle frontiere permettendo così l’infiltrazione di terroristi e armi all’interno dei confini tunisini.

Nell’ultimo anno e mezzo, il governo tunisino ha fatto della lotta al terrorismo una priorità mantenendo il livello di attenzione alto e rafforzando le misure di vigilanza e di sicurezza. Allani stima intorno a 1.500 i tunisini arrestati in cellule dormienti, riducendo il rischio di attacchi terroristici. Di recente, aggiunge, è stata creata in Parlamento una commissione incaricata di indagare sulla formazione di reti jihadiste in Tunisia.

«Dal 2016, le azioni terroristiche sono notevolmente diminuite. Sono una decina le operazioni sventate grazie alla nuova strategia governativa basata su una migliore logistica, un rafforzato coordinamento dei servizi di ricognizione e di intelligence, e una più stretta collaborazione tra la Tunisia e i Paesi vicini, l’Europa e gli Usa», fa sapere il ricercatore.

Una sicurezza difesa anche a scapito dei diritti umani con l’imposizione dello stato d’emergenza, prorogato più volte e rinnovato a febbraio per altri tre mesi. In un rapporto pubblicato da Amnesty International il 13 febbraio, che fa il bilancio sul regime di sicurezza degli ultimi due anni, si parla di 23 casi di tortura e due episodi di violenza sessuale ai danni di detenuti in cui sarebbero implicate la polizia e le brigate anti-terrorismo.

Il rapporto rivela il ricorso ai metodi brutali del passato, alla tortura e agli arresti arbitrari così come le perquisizioni senza mandato, spesso durante raid notturni, e l’accanimento nei confronti delle famiglie di chi è sospettato di terrorismo.

Secondo Amnesty, a 5 mila persone è stato vietato di viaggiare all’estero con la motivazione di impedire di unirsi ai gruppi armati che operano altrove in Medio Oriente e in Africa del Nord. Provvedimenti ritenuti dall’organizzazione per la difesa dei diritti umani «sproporzionati» e «arbitrari». Ancora: 138 persone sono state sottoposte ad arresti domiciliari o al divieto di frequentare determinate zone.

Riferendosi alle violazioni commesse dalle autorità, Moez Ali, presidente dell’Unione dei tunisini indipendenti per la libertà (Util), precisa che oggi non si può parlare di un fenomeno sistematizzato, si tratta perlopiù di azioni individuali di alcuni ufficiali o agenti.

«Ci sono degli individui nelle forze di sicurezza e polizia che, ritrovandosi con meno potere nel dopo-rivoluzione, non si sono adattati al nuovo contesto, adottano ancora le pratiche del vecchio sistema e perpetrano abusi», dice Ali.

Attraverso vari incontri e tavole rotonde, l’Util sta lavorando per ristabilire la fiducia tra forze di sicurezza e cittadini nelle aree marginalizzate del Paese. Uno studio condotto dall’organizzazione non-governativa ha riscontrato che tra i fattori di spinta per i tunisini che partono per la jihad vi è la violenza subita dai giovani nelle stazioni di polizia in aree povere, che istigherebbe odio contro le istituzioni statali.

Per Ali, si conterebbero decine di casi di violazioni contro criminali o persone sospettate di terrorismo. Azioni che rischiano di compromettere il percorso transitorio della Tunisia che finora resta l’unica esperienza di relativo successo della Primavera Araba in termini di libertà e democrazia.

La Tunisia si prepara alla stagione estiva per rilanciare il turismo, settore chiave per l’economia nazionale. Resta, però, il pericolo del rientro nel Paese dei circa 5 mila militanti jihadisti, che sono andati in Siria e Iraq per unirsi agli uomini del gruppo Stato islamico.

Se a questo si aggiunge la mancanza di una vera strategia per lo sviluppo del Paese, la crisi economica e l’alta disoccupazione, il rischio di radicalizzazione e reclutamento di nuovi terroristi tra la gioventù tunisina è ancora reale.

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