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Se il Kurdistan se ne va

Fulvio Scaglione
7 aprile 2017
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Si fa strada il progetto di dividere l'Iraq in una federazione con una repubblica sunnita, una sciita e una curda. La Siria farà la stessa fine? Una polverizzazione che toglie spazi ai cristiani e non favorisce la pace.


Alla fine ce la faranno, a spezzare l’Iraq in tre monconi. Il progetto, cioè dividere il Paese in una specie di federazione con una repubblica sunnita, una sciita e una curda, è sul tavolo fin dall’invasione anglo-americana del 2003 e viene regolarmente riproposto soprattutto nei circoli politici anglosassoni. Nei giorni scorsi ha ricevuto un ulteriore impulso: il Consiglio provinciale di Kirkuk, il grande centro petrolifero del Nord, ha votato per tenere un referendum sullo status della regione: se debba entrare far parte del Kurdistan o rimanere legata al Governo centrale di Baghdad.

La stessa decisione ha fornito un anticipo di quanto potrà succedere in futuro, visto che i membri turkmeni e arabi del Consiglio hanno boicottato il voto. Soprattutto se teniamo presente il contesto: dal 2014, cioè da quando le truppe irachene fuggirono davanti all’avanzata dell’Isis, Kirkuk è di fatto occupata dai peshmerga curdi; una settimana fa il Consiglio provinciale aveva ordinato di issare la bandiera del Kurdistan su tutti gli edifici pubblici; e il governatore di Kirkuk, Najmaldin Karim, ha dichiarato che il referendum sullo status di Kirkuk dovrebbe essere abbinato a un’analoga consultazione sull’indipendenza del Kurdistan. Le premesse per la disgregazione, insomma, ci sono tutte.

Le iniziative si inseriscono nella corsa collettiva a guadagnare spazio in vista di quella che viene considerata l’inevitabile riconquista di Mosul, dal luglio 2014 in mano all’Isis.  I curdi hanno fatto la loro mossa, evidentemente sicuri dell’appoggio degli Usa. La Turchia, che teme un rafforzamento dei curdi, e il governo di Baghdad, guidato dallo sciita Haider al Abadi, sono ovviamente andati su tutte le furie.

Fin qui, però, siamo nell’ambito delle piccole ambizioni di potenza. Nessuno sembra considerare altri fatti, forse meno evidenti nel breve ma decisivi nel medio e lungo termine. La formazione di Stati nazionali multietnici e multireligiosi è la premessa per qualunque vera ricostruzione del Medio Oriente, e anche per la sua pacificazione. Al contrario, la creazione di una miriade di staterelli a base etnico-religiosa è la garanzia di una conflittualità permanente. La Federazione irachena, se nascerà, avrà vita breve, soffocata dalle rivalità a sfondo settario. Altrettanto, ovviamente, succederà nella Siria disgregata. In altre parole, succederà ciò che è già successo in Libia.

In più, rispetto a un Paese come la Libia, almeno dal punto di vista religioso assai compatto (i musulmani sunniti sono il 97 per cento della popolazione), l’Iraq (e anche la Siria) ospitavano fino a qualche tempo fa minoranze cristiane magari ridotte nei numeri, ma assai influenti nella società attraverso le scuole, le opere assistenziali, gli ospedali. Quale posto e quale futuro possono avere le minoranze in uno Stato dove ci si potrà sentire a casa in questo o quel luogo solo essendo sunniti, sciiti o curdi?

Il problema è che, come la storia di questi ultimi decenni ha dimostrato, la presenza delle minoranze, e di quella cristiana in particolare, funziona come uno straordinario collante sociale. Quando queste minoranze scompaiono, o viene loro impedito di farsi “sentire” attraverso le opere, l’intera società si sfalda. E questo è proprio ciò attende l’Iraq e la Siria se ridotte a spezzatino.

 


 

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Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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