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Ahmadinejad, il Trump dell’Iran

Fulvio Scaglione
13 aprile 2017
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Mahmud Ahmadinejad, già due volte presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 2005 al 2013, è pronto a ricandidarsi alla presidenza. La sua è una specie di follia politica non priva di logica.


Un politico italiano dell’antica “prima Repubblica” era stato soprannominato “il Rieccolo”, per la capacità di tornare sulla scena in modo inaspettato. Potremmo ora dire la stessa cosa di Mahmud Ahmadinejad, già presidente della Repubblica islamica dell’Iran per due mandati dal 2005 al 2013 e ora pronto a ricandidarsi insieme con il fedele vice Hamid Baghaei alle elezioni previste per il 19 maggio. Il tutto dopo che la guida suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, nell’autunno scorso l’aveva caldamente “invitato” a desistere per non spaccare il Paese. Pronunciamento che Ahmadinejad definì «un semplice consiglio». Il consiglio a quanto pare non è stato convincente e Ahmadinejad, che ha nel curriculum l’isolamento internazionale dell’Iran e la durissima repressione delle proteste giovanili che nel 2009 seguirono alla sua rielezione, è diventato appunto “il Rieccolo” di Teheran.

La sua è una specie di follia politica, che però non è priva di logica. Il mandato dell’attuale presidente, Hassan Rouhani, era cominciato all’insegna di grandi speranze per l’accordo raggiunto con gli Stati Uniti, la Russia e l’Europa a proposito del nucleare. La rinuncia iraniana doveva essere compensata con il ritiro delle sanzioni, che a sua volta prometteva il decollo dell’economia del Paese, mortificata dall’embargo internazionale oltre che dalle distorsioni interne. Le sanzioni sono state ritirate solo in parte e, anche se il governo Rouhani non ha fatto male (l’inflazione è calata, le maggiori vendite di petrolio hanno generato, nel 2016, una crescita del Pil del 6,6 per cento), la delusione rispetto alle attese non è stata di poco conto.

Sulla mossa di Ahmadinejad, però, deve aver pesato anche la situazione esterna. L’elezione di Donald Trump è stato uno choc per gli iraniani, che l’hanno sentito adottare, a proposito dei rapporti con il loro Paese, un linguaggio simile a quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che considera la Repubblica islamica il maggiore ostacolo alla pace in Medio Oriente. Oggi si delinea una tenaglia di Usa, Arabia Saudita e Israele che l’alleanza con Russia e Siria compensa solo parzialmente, soprattutto dal momento in cui Trump ha fatto partire salve di missili contro la Siria stessa.

Un quadro che oggettivamente spiazza i riformatori di Rouhani, che del disgelo esterno avevano fatto la piattaforma delle riforme interne, e del tentativo di smantellare il complesso sistema di sovvenzioni e prebende che appesantisce l’economia e ingrassa i corpi separati dello Stato, primi fra tutti i pasdaran. Ahmadinejad, al contrario, si presenta come il duro che tenne testa all’Occidente, l’uomo più adatto a gestire un futuro che sembra di nuovo tempestoso. Anche altri, però, se la passano male di fronte alla scommessa di Ahmadinejad. Per la prima volta i conservatori si erano dati una riverniciata democratica organizzando delle primarie su una lista di cinque candidati. Ahmadinejad, nei loro confronti, adotta la postura dell’innovatore indifferente alle liturgie dei circoli religiosi, ai candidati scelti nel claustrofobico ambiente di poche decine di tubanti.

Volendo fare una battuta, potremmo dire che anche in Medio Oriente arriva l’ondata populista. E l’idea che Ahmadinejad sia il Trump o il Le Pen dell’Iran ha certo il suo fascino. A patto però di chiedersi, anche, che cos’abbiano fatto gli altri per meritarselo.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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