Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha dichiarato ieri sera lo stato di emergenza, per tre mesi, dopo i due attentati dinamitardi della Domenica delle Palme. I cristiani egiziani non attraversavano un momento tanto tragico dalla bomba dello scorso dicembre alla chiesa dei santi Pietro e Paolo al Cairo che provocò 28 morti e oltre 40 feriti.
La duplice strage del 9 aprile scorso ha causato 43 morti e più di 100 feriti, stando agli ultimi aggiornamenti del ministero della Salute egiziano. La bomba esplosa nella chiesa di San Giorgio (Mar Girgis) a Tanta, a nord del Cairo, ha ucciso almeno 27 persone e ne ha ferite altre 78. Poche ore dopo, un secondo attacco suicida ha colpito la cattedrale di San Marco ad Alessandria, dove stava celebrando il patriarca copto ortodosso, papa Tawadros II: 16 i morti, 40 i feriti. I due attentati sono stati prontamente rivendicati dal sedicente Stato islamico attraverso Amaq, la sua agenzia di stampa semi-ufficiale.
In Egitto è stato proclamato un lutto nazionale di tre giorni, in concomitanza con i funerali, celebrati tra domenica e lunedì. Le misure di sicurezza ora sono rafforzate davanti ad alberghi, edifici pubblici e in piazza Tahrir, al Cairo. Tutto ciò a tre settimane dalla visita di Papa Francesco, in calendario il 28 e 29 aprile.
«Al mio fratello Papa Tawadros II, alla Chiesa copta e a tutta la nazione egiziana esprimo il mio profondo cordoglio, prego per i defunti e i feriti, e sono vicino ai familiari e alla comunità», diceva Bergoglio domenica mattina in piazza San Pietro, reagendo al primo attentato. «Il Signore – aggiungeva – converta i cuori delle persone che seminano terrore, violenza e morte, e anche il cuore di quelli che fanno e trafficano le armi».
«Per i terroristi, i copti sono un bersaglio facile ed efficace», sostiene il portavoce del patriarcato copto, padre Boules Halim.
Si appella al governo Mina Magdy, coordinatore e portavoce del movimento giovanile Maspero, affinché si batta contro l’ideologia estremista e sradichi il discorso religioso radicale. «Quest’ultimo doppio attacco, dopo quello di dicembre, sta a dirci che attentati terroristici possono verificarsi ovunque – annota Magdy – e i responsabili scelgono le festività religiose per stroncare il più alto numero di vite».
All’indomani della bomba a Tanta, le strade che conducono alla chiesa di San Giorgio sono quasi deserte, sbarrate al traffico. L’area intorno al luogo della tragedia è stata delimitata dalla polizia. Due ragazze copte, vestite di nero, sostano davanti all’ingresso dell’edificio sacro. Erano lì domenica, poco dopo l’esplosione, a guardare con orrore le ambulanze che trasportavano corpi. Dolore e rabbia nei loro occhi umidi. Chiedono che il personale di sicurezza nel governatorato di Gharbiya sia licenziato e sostituito; dicono che le chiese non sono al sicuro.
È un grosso cruccio per il capo dello Stato El-Sisi che al momento della sua elezione a presidente aveva garantito agli egiziani sicurezza e stabilità e ora si trova a fare i conti con le falle della stessa sicurezza. Fin qui i cristiani copti hanno comunque mostrato lealtà ad el-Sisi, che si è fatto baluardo contro gli islamisti dopo aver deposto il presidente Mohammed Morsi nel luglio 2013.
Nell’ospedale universitario di Tanta, dove sono state portate le vittime dell’esplosione a San Giorgio, sono numerosi i cristiani accorsi a rendere visita ai loro cari. Famiglie, amici e conoscenti si incrociano nei corridoi e si abbracciano. Alcuni hanno notizie consolanti, altri condividono momenti struggenti. Una giovane donna non fa che piangere e implorare «Dio mio!» con i parenti attorno che cercano di calmarla. Suo marito dovrà affrontare una difficile operazione, dopo aver subito gravi lesioni alla testa e allo stomaco. Un ragazzo è in sedia a rotelle, con un occhio bendato. Una ragazzina ha perso un occhio…
Tra lo choc e il lutto, agli egiziani restano molti dubbi circa la protezione dei copti e dei luoghi di culto cristiani.