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Siria, tutto il dolore di Mazen

Ilaria Sesana
6 marzo 2017
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Siria, tutto il dolore di Mazen
Mazen Alhummad (secondo da sin.) porta la sua testimonianza nella serata del 3 marzo a Milano. (foto S. Falciatori/Zeppelin)

La testimonianza di Mazen Alhummada, 40 anni, un esule siriano scampato a mesi di detenzione dura e torture nelle carceri statali.


«Mi hanno arrestato il 15 marzo 2012 mentre stavo portando 55 pacchi di latte in polvere alle famiglie del quartiere assediato di Darayya, alla periferia di Damasco». È iniziato così l’incubo di Mazen Alhummada, 40 anni. Prima della guerra, lavorava come operaio specializzato per una grande compagnia petrolifera in Siria. Come tanti – con l’inizio delle manifestazioni contro il regime di Bashar al Assad – era sceso in piazza per chiedere libertà, democrazia e dignità. Era già stato fermato due volte dai servizi segreti, per brevi periodi, ma la terza detenzione durò fino all’ottobre 2013.

Diciannove lunghi mesi durante i quali Mazen Alhummada ha vissuto l’inferno delle prigioni siriane in cui il regime di Bashar al Assad rinchiude ed elimina gli oppositori. «Fin dal 2011 e per tutto il 2012, le torture avevano come obiettivo quello di farti confessare che possedevi armi, che avevi partecipato a una rivolta armata che aveva come obiettivo quello di rovesciare il regime», racconta Mazen Alhummada, che il 2 marzo ha partecipato alla conferenza stampa di presentazione della mostra Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura  in programma a Milano fino all’8 marzo (ex Fornace Gola, Alzaia Naviglio Pavese 16).

La mostra raccoglie una trentina delle oltre 50 mila immagini fotografiche trafugate da Caesar, nome in codice che indica un ex ufficiale della polizia militare siriana che dal 2011 vede passare davanti alla lente della sua macchina fotografica un numero sempre maggiore di vittime di tortura, uomini e donne morte di botte e di stenti nelle carceri siriane. Questi scatti – attentamente verificati da più soggetti – rappresentano la pistola fumante dei crimini commessi dal regime di Assad. Un regime fondato sulla tortura e che già nel 1991 era stato inserito da Amnesty International nell’elenco dei Paesi che la praticava in maniera sistematica. Ben 38 le forme di supplizio catalogate dall’agenzia internazionale per i diritti umani, tra cui la “sedia tedesca”: un sedile di metallo composto da parti mobili cui la vittima viene legata polsi e caviglie. Lo schienale viene spostato indietro lentamente provocando distorsioni agli arti e portando al soffocamento il malcapitato. Un supplizio che deve il proprio nome al suo inventore: Alois Brunner, ex gerarca nazista riparato a Damasco dopo la seconda guerra mondiale, che ebbe un ruolo fondamentale nell’organizzazione dei servizi segreti siriani.

Nelle carceri siriane, la tortura segue un metodo, uno schema predefinito che vede un crescendo di brutalità. La prima fase prevede pestaggi in piena regola con ogni oggetto a disposizione dei carcerieri: Mazen viene steso a terra e quattro energumeni iniziano a colpirlo con calci e saltando sul suo corpo spezzandogli tutte le costole. Segue una seconda fase in cui viene appeso per i polsi a una quarantina di centimetri dal suolo: il peso del corpo sulle manette lacera la carne. Infine la terza fase, la più brutale, fatta di stupri, ustioni con spuntoni metallici arroventati e sigarette spente sulla pelle nuda. «Ne porto ancora i segni sulla carne – spiega l’uomo -. E mentre ci torturavano continuavano a insultarci e minacciarci».

Ascoltare le parole di Mazen fa precipitare in una spirale dell’orrore cui non sembra esserci mai fine. Persino i medici e gli infermieri dell’ospedale in cui l’uomo viene ricoverato (il famigerato ospedale militare 601 di Damasco, dove sono state scattate le immagini del rapporto Caesar) si adeguano al comportamento degli aguzzini. «Potevamo andare in bagno solo una volta al giorno – racconta Mazen – spesso però capitava di trovare il corpo di qualcuno che non ce l’aveva fatta. Mi hanno obbligato a urinare sui corpi ammassati in bagno». In quei giorni Mazen non è nemmeno autorizzato a pronunciare il proprio nome: per tutti è il numero 1.858.

A questo orrore si sommano le condizioni di detenzione inumane: i prigionieri sono costretti a vivere ammassati in minuscole celle: «Stavamo rannicchiati tutto il tempo con il mento appoggiato sulle ginocchia. Ho visto gente morire di fame, per le malattie, per le infezioni provocate dalle ferite. Ogni giorno morivano almeno due o tre persone – spiega –. Mentre sto parlando, altri cinque membri della mia famiglia sono ancora nelle carceri di Assad e non sappiamo se sono ancora vivi».

Quando Mazen finalmente riesce a raccontare la sua storia davanti al giudice del tribunale militare ritratta subito le confessioni estorte sotto tortura. Mostra i segni sul suo corpo e ribadisce: «Non ho mai impugnato armi». Il giudice gli crede e ordina la sua liberazione. Dopo 19 mesi il suo incubo è finito. Ma non quello di migliaia di altri siriani.

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