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Libia, l’inferno dei migranti

Fulvio Scaglione
9 marzo 2017
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Ci sono centri di detenzione dei migranti in Libia che dovrebbero frenare le partenze verso l'Europa. In realtà li gestiscono i trafficanti di essere umani, come anticamera dei barconi. Ora anche l'Italia rischia di foraggiarli.


Qualche giorno fa l’Unicef ha pubblicato un documento agghiacciante intitolato Un viaggio fatale per i bambini: la rotta migratoria del Mediterraneo centrale. Il titolo dice tutto ma è giusto aggiungere che il rapporto, con la forza dei numeri e delle testimonianze, racconta il dramma di chi rischia la vita, e spesso la perde, per attraversare metà dell’Africa e puntare verso l’Europa.

Dovremmo leggerlo nelle case  e nelle scuole, questo rapporto. Qui, a Babylon, ci concentriamo su quanto riguarda la Libia. Ecco che cosa dichiara un funzionario di polizia del ministero dell’Interno libico: «Esistono decine di prigioni illegali su cui non abbiamo alcun controllo. Ce ne sono almeno 13 a Tripoli. Sono gestite dalle potenti milizie armate che fanno il doppio gioco. Da una parte chiedono soldi a fonti governative ufficiali per tenere i migranti e comprare cibo, acqua e indumenti, mentre dall’altra controllano direttamente la tratta di esseri umani, usando le prigioni per trattenere i migranti in attesa finché non viene consentito loro di partire… Questi miliziani fanno finta di arrestare i migranti illegali e li tengono nei loro centri per un po’, senza cibo né acqua, si prendono tutti i soldi che possiedono, e poi li portano nella zona di Garabulli, fino ai gommoni in attesa. Non abbiamo alcun potere su queste prigioni. Non possiamo neppure avvicinarci perché rischiamo di essere ammazzati».

Queste parole arrivano mentre è ancora fresco di inchiostro l’accordo, anzi il “memorandum di intesa” che l’Italia ha firmato con il governo del premier libico Fayez al-Farraj. Governo, questo di Al Farraj, di riconciliazione nazionale, l’unico riconosciuto in ambito internazionale. Governo però debole, insidiato dal contropotere di Khalifa Haftar (ex generale di Gheddafi, ex collaboratore della Cia) e da quello delle infinite milizie di espressione tribale che si scontrano e si combattono da anni.

C’è un crudele paradosso storico. Avevamo firmato un accordo simile con Gheddafi, poi nel 2011 Francia, Gran Bretagna e Usa decisero di distruggere quella Libia e adesso eccoci qui, a ripercorrere gli stessi passi con un interlocutore assai più debole e, per forza di cose, meno “affidabile”.

A parte questo, facciamoci una domanda: quali garanzie abbiamo, noi italiani che ad Al Farraj forniremo assistenza e mezzi, che il sistema descritto da quel funzionario libico non si perpetui e, anzi, si rafforzi? Le testimonianze del rapporto Unicef raccontano di percosse, sevizie, violenze sessuali anche ai danni dei bambini, soprusi e abusi di ogni genere e tipo.

Davvero pensiamo che Al Farraj sarà in grado di fermare tutto questo? Oppure ci basterà veder arrivare qualche migrante in meno, senza badare troppo ai metodi con cui questo risultato sarà stato ottenuto?

Un esempio già l’abbiamo. È quello della Turchia, cui l’Unione Europea versa 6 miliardi di euro perché si tenga i profughi della Siria, costretti a vivere in condizioni più che precarie, spesso miserevoli. E la Turchia, con tutti i suoi problemi e con quell’Erdogan che ogni giorni chiamiamo dittatore, non è la Libia, che non è più un Paese ma un disastro. L’effetto, ammettiamolo, è uno solo: sembra che corriamo sempre appresso ai pasticci che noi stessi abbiamo combinato. Anche sulla pelle dei migranti.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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