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Trump e gli americani che non chiudono le porte

Giorgio Bernardelli
9 febbraio 2017
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La decisione del presidente Donald Trump di bloccare temporaneamente l'ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana ha sollevato proteste tra ebrei e cristiani statunitensi.


Da giorni l’ordine esecutivo con cui il presidente Donald Trump – il 27 gennaio – bloccava temporaneamente tutti i visti di ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette Paesi a maggioranza islamica è al centro delle cronache sul nuovo inquilino della Casa Bianca. E tuttora la battaglia legale con i giudici che l’hanno sospeso resta una questione aperta per l’amministrazione Trump.

Tra le tante prese di posizione giunte in questi giorni dagli Stati Uniti sul provvedimento ce ne sono tre che suonano particolarmente interessanti se osservate con gli occhi del Medio Oriente. La prima riguarda la coralità delle prese di posizione del mondo ebraico contro il provvedimento firmato da Trump. Come osserva il Jerusalem Post la nuova amministrazione americana è riuscita nella non semplicissima operazione di mettere d’accordo le tre diverse anime dell’ebraismo statunitense: ortodossi, conservative e riformati. «Chiediamo a tutti gli americani – si legge ad esempio in una dichiarazione della Orthodox Union – di ribadire che ogni discriminazione contro qualsiasi gruppo basata sulla sola religione è sbagliata e inaccettabile per le grandi tradizioni di libertà religiose e personali sulle quali si fonda questo Paese». Va anche aggiunto che 18 rabbini riformati a New York si sono poi spinti talmente avanti nella loro protesta da essere fermati dalla polizia per intralcio del traffico durante una manifestazione davanti alla Trump Tower.

Più variegate le posizioni nel mondo dei cristiani evangelical sul punto più spinoso della strategia enunciata da Trump: l’intenzione di garantire ai cristiani perseguitati una priorità nel rilascio dei visti. Su questo tema Christianity Today – uno dei maggiori siti di informazione legati al mondo evangelical – ha ospitato un dibattito con diversi interventi. Ma è sintomatico che fra le posizioni più critiche vi siano quelle di World Relief e Preemptive Love Coalition, due delle realtà evangelical più attivamente impegnate nell’assistenza ai cristiani iracheni. «Se vogliamo essere seri nel nostro prenderci cura dei cristiani del Medio Oriente – scrive Jeremy Courtney della Preemptive Love Coalition – dobbiamo mettere in discussione davvero alcuni degli interventi americani in posti come la Siria e l’Iraq e l’impatto che hanno avuto sulle antiche comunità cristiane locali. Inoltre dobbiamo uscire da questo modo di pensare a somma zero per cui dovremmo prenderci cura “dell’uno” o “dell’altro” – che vuole poi dire della nostra sicurezza o del loro benessere. Ci apparteniamo a vicenda. E il benessere dei miei fratelli cristiani in Iraq e in Siria è legato a quello dei miei fratelli musulmani».

Ironico come sempre, ma anche profondamente amaro – infine – il commento di Sayed Kashua, scrittore arabo israeliano e firma di punta di Haaretz. Dopo avere per anni sorriso sugli stereotipi nei rapporti tra arabi ed ebrei all’interno della società israeliana, due anni e mezzo fa Kashua ha deciso di lasciare Israele e accettare una cattedra di insegnamento negli Stati Uniti, dichiarando pubblicamente che la sua speranza che un giorno in Israele le barriere sarebbero cadute era solo un’illusione. In questi giorni è tornato a far sentire la sua voce su Haaretz con un articolo esilarante (ma disponibile solo nella sezione per gli abbonati). Il titolo è tutto un programma: «Come Trump ha fatto sentire finalmente a casa in America questo arabo israeliano». «Avevo paura di perdere la mia sensazione di essere perseguitato – scrive Kashua – ed ero realmente preoccupato che il venir meno della mia paranoia politica giocasse un brutto scherzo alla mia scrittura. Ma, grazie a Dio, tutto sta cominciando di nuovo a funzionare».

Nell’articolo Kashua è precisissimo nel rintracciare nell’America di Trump le stesse dinamiche dell’arabofobia conosciuta in Israele; azzarda pure una serie di gemellaggi tra i politici della nuova amministrazione americana e quelli in circolazione alla Knesset. Ma ciò che fa riflettere di più è la riflessione finale: «Lo so, lo so – scrive – l’America non è Israele, non c’è paragone. Dopo tutto, è vero, qui si sentono ovunque e in continuazione voci coraggiose – quelle dei Democratici e anche quelle di alcuni Repubblicani – secondo cui gli editti con i divieti della nuova amministrazione sono l’opposto rispetto a ciò per cui questa nazione si è sempre battuta e contrastano con l’essenza che sta alla base degli Stati Uniti d’America. L’unica cosa che mi manca – annota però Kashua – è capire che cosa sia quest’essenza di cui parlano. Finché non l’avrò afferrato, andrò a nascondermi in casa, imparerò l’inno nazionale a memoria e se me lo chiederanno risponderò che il popolo americano è assolutamente meraviglioso e che l’America è il più bel Paese del mondo».

Clicca qui per leggere un articolo sulla presa di posizione delle associazioni ebraiche americane sull’ordine esecutivo di Trump

Clicca qui per leggere l’intervento di Jeremy Courtney della Preentive Love Coalition

Clicca qui per leggere l’articolo nel quale Sayed Kashua nel 2014 annunciava la sua scelta di lasciare Israele

 


 

Perché “La Porta di Jaffa”

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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