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Il patriarca Younan: «In Iraq è in atto un genocidio»

Manuela Borraccino
27 febbraio 2017
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Il patriarca Younan: «In Iraq è in atto un genocidio»
Ignace Youssef III Younan, patriarca di Antiochia dei siro-cattolici.

La denuncia del patriarca siro-cattolico Ignace Youssef III Younan: «Genocidio non vuol dire solo uccidere, ma anche sradicare un popolo dalla sua terra. E oggi in Iraq è in atto un genocidio dei cristiani».


«Il martirio è sempre esistito e ha fecondato la Chiesa, certo, Ma oggi c’è una differenza fondamentale rispetto al passato: oggi non sono a rischio solo gli individui, oggi l’intera nostra minoranza siro-cattolica rischia di scomparire per sempre dalla faccia della Terra o sopravvivere perdendo la sua identità culturale, ecclesiale e linguistica. Il genocidio non vuol dire solo uccidere, ma anche sradicare un popolo dalla sua terra e fargli perdere la sua identità. E oggi in Iraq è in atto un genocidio dei cristiani». Sono parole pesanti come pietre quelle del patriarca siro-cattolico Ignace Youssef III Younan, a margine di una serie di incontri in agenda nei giorni scorsi a Novara e a Roma.

«Quello che è avvenuto in questi sei anni ci ha devastato il cuore: dopo infiniti appelli inascoltati, non c’è più molto altro da dire: questi anni sono stati una tragedia senza fine. Nella sola notte fra il 6 e il 7 agosto 2014, circa 140 mila cristiani sono stati sradicati dalla Piana di Ninive: la nostra intera diocesi siro-cattolica nell’Iraq settentrionale è stata cacciata via dalle bande terroristiche dello Stato islamico (Isis): un arcivescovo, 34 sacerdoti e religiosi, più di 50 suore e 45 mila dei fedeli sono dovuti fuggire, 18 nostre chiese e un monastero risalente al quinto secolo sono stati dati alle fiamme. Ora hanno passato il terzo Natale nei campi profughi con questa atmosfera di desolazione. Non sappiamo quando sarà possibile per le varie comunità cristiane tornare in sicurezza nelle loro case. Più di tutto, non sappiamo come convincere la nostra gioventù a farsi coraggio, tornare nelle loro terre e vivere la speranza cristiana».

Che prospettive vede per la presenza dei cristiani in Medio Oriente?
Quello che è in atto in Iraq è un genocidio dei cristiani: un’intera Chiesa rischia di scomparire. In gioco c’è la nostra stessa sopravvivenza nelle nostre terre e anche come comunità siro-cattolica, una comunità antichissima che ancora oggi usa come lingua liturgica l’aramaico, la lingua di Gesù. La gente non vede la possibilità di tornare: se emigreranno in Australia o raggiungeranno le famiglie che già sono in Canada o negli Stati Uniti il Medio Oriente resterà privo di una componente fondamentale della sua storia, della sua identità, questi Paesi saranno deprivati di comunità che sole possono garantire pluralismo e rispetto delle differenze.

Dove si trovano oggi i suoi fedeli?
Tutta la popolazione della nostra diocesi è stata cacciata ed è la più perseguitata dai miliziani dell’Isis: di 12 mila famiglie più della metà sono in Kurdistan come profughi, altre 5 mila famiglie hanno ripiegato in Libano. Qui abbiamo anche 1.300 famiglie siriane, altrettante in Giordania e circa 700 famiglie in Turchia. Un po’ più della metà della comunità siro-cattolica si trova nel Kurdistan iracheno.

Che situazione ha trovato quando ha visitato due mesi fa Qaraqosh, la più importante città cristiana irachena, dopo la liberazione dagli jihadisti che l’hanno occupata per più di due anni?
Oltre a Qaraqosh sono andato a Bartalle e a Karamle: tre città liberate, sì, ma ridotte a cumuli e macerie. Ovunque ho trovato non solo la devastazione che ci aspettavamo ma i segni dell’odio religioso: prima di andarsene hanno bruciato la metà delle case e delle chiese. Qaraqosh è una città fantasma: ci sono i soldati ma non c’è sicurezza, i palazzi sventrati sono piene di mine e di bombe al fosforo, ci vorranno molti mesi per la bonifica. Il governo è occupato nella lotta contro le milizie, non c’è acqua né elettricità. Ho potuto celebrare la Messa nella cattedrale dell’Assunta, fra i soldati che hanno partecipato alla liberazione. Il loro capo mi ha detto che due giorni prima del ritiro hanno messo a ferro e fuoco la città per non far trovare altro che distruzione. Dunque le nostre famiglie cristiane non hanno speranza: vedono che i cristiani non sono voluti e che si farà fatto di tutto per tenerli lontani e cacciarli di nuovo.

Come ha trovato la situazione a Baghdad, sette anni dopo la strage di 56 persone perpetrata da Al Qaeda nella cattedrale?
La cattedrale è stata ricostruita, ma anche lì la gente non ha più fiducia nel futuro: non ci sono atti di violenza contro le comunità cristiane, ma non si vede un futuro in pace e sicurezza. La paura di nuovi attentati è continua: proprio lo scorso 29 dicembre due autobombe sono esplose in un mercato, uccidendo fra gli altri anche quattro dei nostri profughi che si erano rifugiati a Baghdad da Qaraqosh.

Come legge la situazione in Siria?
In Siria la situazione da una parte è diversa e dall’altra simile: è diversa perché mentre in Iraq i cristiani sono concentrati in alcune zone, in Siria sono presenti un po’ ovunque; diversa perché non c’è stato lo sradicamento di massa come in Iraq e, eccetto in alcune città del nord-est del Paese come Hassaké dove l’Isis ha attaccato e ucciso, i cristiani sono ancora oggi presenti nelle grandi città come Aleppo, oppure sulla costa dove ci sono ancora parecchie comunità. È diversa anche perché in Siria il governo è sempre stato molto attento a far sì che tutte le minoranze possano vivere in pace, e storicamente la partecipazione dei cristiani alla vita politica è sempre stata molto più attiva, sia a livello municipale che governativo. In Siria i cristiani erano il 10 per cento della popolazione, ancora oggi sono il 5-6 per cento; in Iraq, invece, prima della guerra del 2003 erano circa un milione e mezzo, oggi il 60 per cento se ne sono andati, non sono nemmeno l’1 per cento della popolazione, stiamo parlando di poco più di 300 mila persone. Al tempo stesso la situazione è simile perché la sofferenza e la paura davanti al futuro sono identiche, l’insicurezza è la stessa, la minaccia continua della violenza contro la popolazione civile e la tentazione di emigrare sono uguali.

Quali sono stati i limiti della coalizione internazionale?
Le potenze occidentali sono latitanti su tutta la linea.  Dobbiamo riconoscere che la Russia è stata più seria di altre potenze. I russi sono stati gli unici che hanno realmente contrastato questi jihadisti. Le potenze occidentali sono state le più opportuniste in assoluto. Basti pensare all’agenda degli anni scorsi sulla cosiddetta esportazione della democrazia: come si può realizzare la democrazia dove non c’è separazione fra Chiesa e Stato? E perché gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna non hanno esportato la democrazia nei Paesi del Golfo, dove i monarchi lasciano la popolazione nel MedioEvo e nel lusso si trovano solo pochi di loro?

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