Nel Paese nord-africano si dibatte su come contrastare l'uso di stupefacenti. Le leggi vigenti - retaggio di un regime dispotico - mandano in carcere anche per uno spinello. Secondo molti così è troppo.
C’è un po’ di democrazia dietro la cannabis? Nel caso della Tunisia… forse. Un gran dibattito, infatti, sta scaldando gli animi proprio a proposito della cosiddetta Legge 52, quella che fu approvata nel 1992 per punire il possesso illegale di sostanze stupefacenti, cannabis compresa. Punire in questo caso è solo un eufemismo, perché la legge prevede la condanna minima a un anno di prigione per chi sia stato trovato in possesso di droghe e quella minima a cinque anni per i recidivi. Nessuna modica quantità, nessun uso personale. E per il giudice, nessun potere discrezionale: in altre parole, un ragazzo trovato in possesso di uno spinello non ha alcuna possibilità di finire in una comunità di recupero o di subire una sanzione amministrativa. In galera e via.
Secondo il rapporto di Human Rights Watch intitolato All this for a joint, 7.451 persone sono finite in prigione per la Legge 52 nel 2015 e 6.700 nel 2016, per il 70 per cento perché trovate in possesso di cannabis. Il che per loro ha significato prima finire nelle mani di un sistema di polizia che ha l’arresto facile ed è piuttosto brutale (per i primi sei giorni di detenzione, l’imputato non ha diritto a visite da parte dei familiari o dell’avvocato, nemmeno quando interrogato dai poliziotti) e poi dover affrontare il girone delle carceri tunisine, sovraffollate all’estremo anche a causa della Legge 52, a cui si deve quasi il 30 per cento di tutte le detenzioni.
La polemica è ormai diventata anche politica. Molti difensori dei diritti civili, infatti, sostengono che la Legge 52, lungi dall’essere uno strumento utile a stroncare il consumo di droghe (secondo Avvocati senza Frontiere, il 54 per cento di coloro che finiscono in carcere torna a drogarsi una volta uscito), è stata solo uno degli strumenti repressivi con cui l’ex dittatore Ben Alì (al potere dal 1987 al 2011) aveva costruito il proprio regime autocratico.
Lo stesso Youssef Chahed, attuale primo ministro (a soli 41 anni il più giovane nella storia della Tunisia), ha proclamato «No al carcere!» partecipando alla re-inaugurazione di Al Amal, l’unico centro di riabilitazione per tossicodipendenti della Tunisia, chiuso diversi anni fa e ora sulla strada della riapertura. Una presa di posizione che Chahed ha usato per rimarcare la nuova strada presa dalla Tunisia rispetto al passato dittatoriale, ma che ha fatto nascere la speranza che la Legge 52 possa finalmente essere emendata.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com