L’obiettivo: fermare i flussi migratori in partenza dalla Libia per sigillare la rotta del Mediterraneo centrale. E la soluzione proposta dai leader dell’Unione Europea che si sono riuniti oggi a Malta è molto simile a quella adottata nel 2016 per “sigillare” il confine orientale della Ue: affidare a un Paese terzo – ieri la Turchia, oggi la Libia – il controllo delle nostre frontiere esterne.
«Ridurre i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo centrale (che collega la Libia all’Italia, ndr) e spezzare il business dei trafficanti». Questo il cardine del documento, in dieci punti, diffuso al termine del vertice di Malta. E che viene già duramente contestato.
«Ci stiamo preoccupando solo di difendere nostri confini, mentre i diritti delle persone non trovano spazio. L’Europa sta facendo un balzo all’indietro di decenni», commenta don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia per la cooperazione allo sviluppo e candidato al premio Nobel per la Pace 2015 per il suo instancabile lavoro di soccorso a favore dei profughi eritrei. «I centri di detenzione in Libia scoppiano, sappiamo che a Misurata ci sono donne eritree ed etiopi che per mesi hanno subito violenze e stupri da parte dei miliziani dello Stato islamico e che ora si trovano in un carcere».
Il documento prevede – tra le altre cose – di proseguire e incrementare il finanziamento, l’equipaggiamento e le attività di formazione rivolte alla guardia costiera libica, cui spetterà il controllo e il pattugliamento delle acque territoriali per scoraggiare le partenze dei barconi carichi di profughi. A seguire si annunciano ulteriori sforzi per smantellare la rete dei trafficanti, l’impegno a migliorare le condizioni nei centri di accoglienza per migranti (in collaborazione con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), l’avvio di attività di informazione presso i migranti per incentivare il rimpatrio volontario (tramite l’Organizzazione internazionale per le migrazioni).
Altro aspetto significativo, l’impegno a collaborare con la Libia per “ridurre la pressione” sulle (sconfinate) frontiere di terra evitando così l’ingresso di migranti e profughi nel Paese. Un punto – quest’ultimo – che si pone in stretta continuità con il testo del Memorandum firmato ieri dal presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, e dal capo del governo ad interim di Tripoli Fayez al-Sarraj in cui si ribadiscono gli sforzi di Italia e Libia per il «completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del Sud della Libia» già avviato nel 2008 con il governo Berlusconi.
«Con questi accordi l’Unione Europea e l’Italia violano di fatto il principio di non refoulement (*) in quanto esigono che i Paesi terzi blocchino con l’uso della forza il passaggio di persone in chiaro bisogno di protezione internazionale», si legge in un comunicato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che evidenzia come i fondi per la cooperazione «ossia quelle risorse economiche che dovrebbero essere destinate alla crescita e allo sviluppo dei Paesi terzi» vengano «ignobilmente degradate a merce di scambio».
Inoltre, i progetti dei governanti dell’Unione Europea sembrano aver trascurato alcuni elementi che possono minare alla base l’effettiva riuscita di questo progetto. Il primo è sicuramente legato alla capacità di controllo del territorio libico da parte del libico al-Serraj. Che sulla carta ricopre il ruolo di primo ministro del governo di accordo nazionale, ma di fatto controlla una porzione ridotta del territorio coincidente grosso modo con la Tripolitania. Inoltre al-Serraj deve fare i conti con l’ingombrante presenza del generale Khalifa Haftar, che da Misurata contesta apertamente la sua leadership.
Per non parlare dello strapotere delle milizie e delle bande criminali che gestiscono il business della tratta. Secondo alcune stime, il traffico di esseri umani costituisce un terzo del Pil della Tripolitania: per al-Serraj non sarà facile contrastarlo dal momento che non può permettersi di perdere l’appoggio di queste milizie.
Altro nodo critico, l’affidabilità della guardia costiera libica che – come hanno denunciano le Nazioni Unite in un recente rapporto – giocano un ruolo chiave nella gestione della tratta di esseri umani. Sono stati infatti denunciati diversi episodi in cui gli stessi guardiacoste hanno poi rivenduto le persone soccorse o intercettate in mare ai trafficanti.
Per i migranti, la Libia è un vero e proprio inferno: detenzioni arbitrarie, rapimenti, torture sono all’ordine del giorno. «Riteniamo che, nella situazione attuale, la Libia non possa essere considerato un Paese terzo sicuro dove si possano avviare procedure extra-territoriali per l’esame delle domande di asilo in Nord Africa», si legge in un comunicato congiunto di Organizzazione internazionale per le migrazioni e Alto commissariato Onu per i rifugiati diffuso ieri, alla vigilia del vertice. Parole che sembrano essere rimaste inascoltate.
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(*) Il principio di non refoulement (espressione francese) è il divieto d’espulsione e di rinvio al confine codificato dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, del 1951, sullo statuto dei rifugiati. Esso prevede che nessuno degli Stati che aderiscono al Trattato internazionale possa espellere o respingere «in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».