La capitale irachena, stravolta dalla guerra e dal terrorismo, è ormai frammentata da tanti muri che circondano quartieri, chiese, palazzi pubblici... Barriere di difesa che ora diventano come grandi tele.
Giallo, blu, rosso, verde, volti di bambini, donne avvolte nei vestiti tradizionali, mani che si stringono: Baghdad si fa bella. O meglio, a farla più bella è un gruppo di quasi 400 giovani volontari iracheni che da un paio d’anni girano per le strade della capitale dell’Iraq per utilizzare in modo alternativo i muri che la attraversano.
Schiacciata in una guerra permanente che va avanti dagli anni Ottanta, conflitti intervallatati da brevi periodi di pace macchiati però da embargo e povertà, Baghdad è lo specchio di un Iraq diviso in centri di potere avversari, in sette e confessioni, tra un governo debole e disfunzionale e milizie armate sempre più influenti.
Gli ultimi scontri, sabato 11 febbraio, tra sostenitori del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr e polizia hanno ucciso sei persone e svelato le fratture interne al fronte sciita; la controffensiva anti-Isis su Mosul – iniziata il 17 ottobre – è accompagnata dai timori dei sunniti di abusi da parte dell’esercito, per lo più sciita; a nord il Kurdistan iracheno tenta la via dell’indipendenza sfruttando i territori presi durante l’avanzata dello Stato Islamico nel 2014.
E poi ci sono le divisioni fisiche: Baghdad è teatro di attacchi continui, sanguinosi, a cui le autorità provano senza successo a porre un freno usando posti di blocco militari e barriere di cemento. La città è piena di muri, lungo le strade, agli ingressi dei quartieri, intorno alla Zona Verde (area fortificata sede delle istituzioni governative e delle ambasciate straniere), vicino a chiese, moschee, scuole. Ma non è solo il governo ad innalzare i suoi muri. Altre barriere sono state poste da gruppi politici che li usano per dividere le zone controllate, trasformandoli spesso nella tela per fare propaganda.
È con questi muri che i volontari di Imprint of Hope hanno deciso di cambiare, per quanto possibile, il volto della loro città. L’idea è venuta ad uno studente, Ali Abdulrahman, nel 2015. Si è rivolto al rettore per chiedere di coinvolgere un gruppo di 100 studenti e colorare i muri dell’ateneo: graffiti con cui mandare messaggi di pace e coesione.
Terminati i lavori all’università, i ragazzi non si sono più fermati: sono usciti e hanno cominciato a colorare le strade di Baghdad. Sono trascorsi due anni da allora. Imprint of Hope è cresciuto, arruola tra le sue fila quasi 400 volontari. Non solo studenti, ma anche artisti, professionisti, muratori: «I nostri volontari vengono da diversi gruppi etnici e religiosi. Con una passione che li unisce: il servizio umanitario», ci spiega Salsabil, del comitato stampa di Imprint of Hope.
Il gruppo non si limita più solo a dipingere le mura di divisione ma anche le pareti di centinaia di scuole (ne hanno colorate 121), orfanotrofi (numerosissimi a Baghdad per l’alto tasso di orfani di guerra), ospedali. L’ultimo grande lavoro è dello scorso dicembre, quando in occasione del Natale hanno dipinto parti della chiesa siro-cattolica Nostra Signora della Salvezza, danneggiata da un’esplosione sette anni fa.
E poi c’è l’assistenza umanitaria: «Abbiamo messo in piedi attività anche in campo umanitario ed educativo – continua Salsabil – Abbiamo organizzato campagne per consegnare aiuti agli sfollati di Mosul e Al-Anbar in diversi campi. Consegniamo cibo, vestiti, medicinali».
Con i graffiti raccontano l’Iraq che vorrebbero, un Paese in cui i diversi gruppi etnici e confessionali tornino a vivere in pace, dove la ricostruzione possa davvero partire e la ricchezza venga redistribuita ad una popolazione che oggi soffre per assenza di servizi e infrastrutture, per l’elevato tasso di corruzione che mangia il denaro a disposizione, per i continui black-out elettrici e la scarsità d’acqua. Un Paese in cui la società civile venga incoraggiata ad essere più attiva e dove ci si possa sentire di nuovo iracheni e non più soltanto sciiti, sunniti o cristiani, arabi o curdi.
«Lavoriamo con tutta la determinazione possibile per affrontare una realtà complicata, per aiutare la comunità irachena con tutte le sue diversità ad emergere, cooperare e riguadagnare speranza e ottimismo. Il nostro obiettivo principale è dare sostegno a tutti i giovani iracheni perché si sentano responsabili di preservare l’Iraq e partecipare al processo di ricostruzione nelle zone liberate dall’Isis».
Ormai li conoscono tutti, i ragazzi di Imprint of Hope. E c’è chi commissiona dei lavori, utili a pagare le spese di vernici e pennelli, altrimenti acquistati con le sottoscrizioni di ogni membro che versa circa 8 dollari al mese. Si autotassano e donano il loro tempo, non solo per dipingere ma anche per ripulire la città e le zone meno servite dalle istituzioni. Per fare più bella la loro Baghdad.