La storia di un gruppo di donne profughe nel Kurdistan iracheno. Per riscattarsi dalla guerra che ha travolto le loro esistenze, apprendono le tecniche degli stilisti di moda. E danno vita a una sfilata delle loro creazioni.
Dilan ha i capelli scuri e i sogni di gloria degli adolescenti. Anche se la vita, finora, con lei non è stata clemente: vive nel campo profughi di Baraka, vicino a Suleymaniya, nel Kurdistan iracheno. «Diventerò stilista», afferma convinta dopo la sfilata. Ma per farlo davvero ha davanti a sé una montagna da superare: l’ambiente dove è cresciuta, molto conservatore; una serie di tabù che imprigionano la sua fantasia creativa; le difficoltà logistiche su dove andare e come accedere a studi adeguati.
Come lei ce ne sono molte altre, qui, a Baraka, in cerca di un’opportunità che le faccia volare alto e lontano da un campo profughi. Samiha è una rifugiata da Qamishli, in Siria. Si definisce «sarta professionista» e per questo motivo non ha indugiato a seguire il corso di fashion designing organizzato dalla ong Civil development organization insieme all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiani (Acnur/Unhcr). «In questo modo – dice – posso acquisire competenze e creare la mia linea».
Il laboratorio è iniziato due mesi fa a Suleymaniya e ha come obiettivo lo sviluppo e il potenziamento delle capacità creative e di lavoro delle donne rifugiate. Il successo è stato notevole: si sono iscritte in trenta, tra le quali molte casalinghe e sei studentesse delle scuole superiori. Per concludere, è stata organizzata l’immancabile sfilata di abiti da sera femminili, abiti non convenzionali, con un mix di stile orientale e occidentale. Undici tra loro, oltre a delle giovani professioniste irachene non profughe, si sono prestate anche come modelle e c’è voluto un bel coraggio per salire in passerella. Ma l’obiettivo ha reso tutte più coraggiose: raccogliere fondi per i loro progetti di studio e di lavoro.
Il backstage della sfilata è abbastanza ordinato, ma l’emozione si taglia col coltello. Darya si fa truccare senza riluttanza. Poi infila un abito a sirena blu, che le solleva i seni, rendendola provocante. Tornata dalla passerella, si butta sulla sedia rilassata e dice la sua: «Fin dalla mia infanzia ho amato il fashion design e la passerella. Calcare le scene è stato un sogno divenuto realtà, ma prima di tutto l’ho fatto per l’obiettivo: raccogliere fondi per trasformare il sogno delle giovani donne rifugiate in un lavoro vero».
Masty è modella di professione. Viene da Suleymaniya e ha un portamento regale. Ha superato quella fase della vita e della professione in cui ci si sente in difficoltà perche hai tutti gli occhi addosso. Dice: «Aiutare le ragazze rifugiate del Rojava è un piacere e conferma che non importa dove o come si vive: importa solo l’energia e la creatività che ci si mette nel fare arte». La sua sicurezza in passerella rende tutte più rilassate: qui ognuna vive il suo personale struggimento e combatte per dimostrare a se stessa e alla prima cerchia sociale intorno a sé, dalla famiglia in poi, che una donna può essere una buona moglie, una brava madre madre e gestire bene le cose di casa, ma non ci sarebbe nulla di male nel potere pure calcare una passerella e disegnare dei vestiti senza subire lo stigma sociale che la vuole solo angelo del focolare domestico.
Gli spettatori della sfilata – una trentina di persone – sono qui più per interesse che per curiosità o critica e sembrano goderne. Nawres, una bella signora in prima fila che ha delle boutique a Suleymaniya ha interessi specifici: «È un buon momento per i designer arabi: sono venuta qui perche li apprezzo e mi piace scoprire nuovi talenti». Non si scompone di un millimetro di fronte ad abiti corti e scollati. «Mi piacciono, anche se li indosso in casa e tra donne». Nel pubblico c’è anche un padre che vuole restare anonimo: «Ho accettato la scelta di mia figlia di occuparsi di moda: non è facile, ma ne sono orgoglioso». Su quella passerella di Baraka, sono tutte regine. Chi sfila e chi crea. A vent’anni basta un bel vestito per sognare un lavoro, inebriarsi di bellezza e dimenticare la guerra.