Mariam Solialhia ha fretta. Tra un paio d’ore comincia la lezione del master in Diritti umani, un percorso di studi che ha intrapreso grazie a una borsa di studio delle Nazioni Unite. Attraversa l’avenue Bourghiba, affollata e pulsante, come al solito, e dribbla i caffè insieme alla madre, una giovane signora in jeans e velo con i pollici sempre attivi sulla chat di Facebook. «Mia madre è un’attivista, come me», chiarisce Mariam, scuotendo i capelli lunghi e ondulati. Lei è solo una delle centinaia di giovani attivisti tunisini che non si sono mai risparmiati da quel 17 dicembre del 2010, quando a Sidi Bouzid il giovane commerciante ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco per protesta contro i soprusi delle autorità e per la Tunisia iniziò un percorso politico irreversibile che creò un effetto domino in tutti i Paesi del mondo arabo, sia Mediterraneo che del Mashrek, fino al Golfo.
Mariam Solialhia (foto Elizia Volkmann)
«Noi lavoriamo e lottiamo ora più di prima, ma sembra che ve ne siate dimenticati». L’appunto che Mariam fa alla stampa internazionale è un capo d’accusa pesante, visto che il Paese ha attraversato la transizione, dalla rivoluzione a un nuovo governo, senza scossoni eccessivi, rigurgiti dittatoriali, guerre civili soffocate nel sangue. «Non per questo motivo siamo meno “interessanti”», sottolinea Mariam. Perché, a distanza di cinque anni dalla rivoluzione, il lavoro che c’è da fare è tanto: per la riconciliazione, l’equilibrio, il ristabilimento della giustizia sociale. Banalmente, per creare una società sostenibile. «Faccio parte di un pool di giovani, impegnati come facilitatori nel Dialogo nazionale delle organizzazioni giovanili: compito non facile, visto il divario generazionale tra giovani e governo e le differenze profonde che ci sono tra i giovani tunisini. Ma tutto questo è appassionante perché solo dalla pluralità potrà venire fuori qualcosa di buono».
Il gruppo di Dialogo nazionale – che è un complemento del Quartetto del dialogo nazionale tunisino – è stato istituito dal presidente della Repubblica e dal governo a maggioranza islamista (partito Ennhada) nel 2011 e lavora su alcuni temi: occupazione, istruzione, libertà di espressione, associazionismo, inclusione sociale, giustizia, diritti dell’uomo. «A distanza di alcuni anni dal 2011, possiamo dire che la situazione, in termini di diritti di espressione, è di gran lunga migliorata. Lo stesso non si può dire per la crescita economica».
Ecco il tasto dolente: la popolazione giovanile in Tunisia è pari a 1 milione e 410 mila persone, poco più del 18 per cento del totale, ma il 15 per cento dei giovani non ha un impiego. Gli investimenti promessi dal nuovo governo arrivano ma non si prevede una crescita netta fino al 2020. Contrasto alla corruzione e richiesta di trasparenza e giustizia sono però i due perni sui quali, faticosamente, la Tunisia sta ricostruendo lo Stato, con l’impegno della società civile in testa. La Commissione sulla Verità e la Dignità sta faticosamente ricostruendo anni di abusi, torture e atrocità contro gli oppositori del deposto presidente Zine El-Abidine Ben Ali dal 1955 ai giorni nostri. Le audizioni coinvolgono un centinaio di attivisti già imprigionati e l’obiettivo finale è ricostruire uno storico di ogni forma di deterrente alla libertà di stampa, affinché, in Tunisia, non accada mai più. Ma sul piano politico c’è un altro capitolo importante: le legge per la riconciliazione, avversata da molti, tra cui tanti giovani attivisti soprattutto laici. «È una legge – incalza Mariam – che premia la giustizia di transizione, riesumando le sperequazioni avvenute prima della rivoluzione e che va a riformare tutto il sistema giudiziario tunisino, di fatto a vantaggio dell’attuale maggioranza di governo. Ma non va a intaccare il sistema burocratico e amministrativo, lì dove si aprono le falle della corruzione che è il vero cancro della Tunisia». Corruzione e mancanza di lavoro si saldano, dunque, in una morsa soprattutto nelle zone meno sviluppate del Paese. Come Kasserine, dove il 30 per cento degli uomini non ha un lavoro e dove, nel novembre di quest’anno, un gruppo di disoccupati ha assaltato l’ufficio del governatore, costringendolo alla fuga.
Mondher Tounsi ha 19 anni, studia giurisprudenza, e lavora a Kasserine da un paio d’anni, in un programma finanziato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. «Lavoro nel primo progetto del genere sulla de-radicalizzazione in Tunisia. Abbiamo una piattaforma dedicata che va a servire giovani di un’area molto depressa, tutti marginalizzati e disoccupati». L’area di Kasserine è nota per la presenza di gruppi terroristici nelle zone montagnose e più impervie, prospicienti al confine con l’Algeria. Ma l’azione dei media che hanno bollato tutta la popolazione dell’area come affiliata è stata assolutamente deleteria. «Kasserine è distante dall’area di montagna e i suoi abitanti sono stati soggetti a un linciaggio mediatico che ha esacerbato gli animi. Conosco bene questa gente che è anche molto diversa da me: ma qui c’è stato un problema originario di povertà, mancanza di infrastrutture, ignoranza, poca scolarizzazione. Il governo precedente e quello attuale non si sono mai occupati di questa zona. Coinvolgere i giovani in un processo decisionale è la chiave affinché il loro eccessivo tempo libero non venga occupato prima dalla predicazione religiosa salafita, e poi dai reclutatori jihaddisti, da chi li vuole radicalizzare e trasformare in terroristi».
Mondher Tounsi (foto Elizia Volkmann)
Mondher è berbero, ha viaggiato negli Stati Uniti e in Italia, ha chiara l’idea di un mondo ampio e plurale che è quello per il quale si batte in Tunisia: «La rivoluzione è stata positiva, basta sentir parlare di rivoluzioni fallite! Ma non ci può essere uno Stato migliore senza la lotta alla corruzione e il coinvolgimento dei giovani nel processo decisionale. Se ci fosse una crescita di valori democratici, per quanto mi riguarda, sarebbe anche meglio».
Mariam è convinta che una delle chiavi per lo sviluppo della Tunisia stia nella comunicazione, così come accadde nel 2011 per la rivoluzione: «Giovani e vecchi non si parlano; disoccupati e governo nemmeno; spesso si creano delle narrative distorte, potenziate dai media, come nel caso della provincia di Kasserine. Noi abbiamo iniziato a sensibilizzare i cittadini invitandoli su una piattaforma di dibattito, www.ijaenti.tn, che vuol dire “è tuo interesse partecipare”. Per costruire uno Stato, più o meno democratico, è importante far capire che non si deve delegare il processo decisionale: lo Stato che vogliamo costruire dipende da noi». Come dice Mondher, «fare la rivoluzione non basta, anche se è il primo passo».