La guerra in Siria - con la presa dei quartieri di Aleppo in mano ai ribelli - sta per finire oppure no? E tutte le forze regionali che per anni hanno soffiato sul fuoco di questo conflitto da domani che cosa faranno?
Con la conquista di Aleppo Est da parte delle forze lealiste fedeli al presidente Bashar al-Assad la guerra in Siria – con le sue immani sofferenze iniziate ben prima dell’assedio dei quartieri in mano ai ribelli – si sta avvicinando alla fine oppure no? E tutte quelle forze regionali che per anni hanno soffiato sul fuoco di questo conflitto, inondando la regione di armi e trasformandola nel teatro della grande guerra per procura di tutto il Medio Oriente, da domani che cosa faranno?
Di fronte alle cronache giunte in queste ultime ore dalla Siria dovrebbero essere queste le domande più ragionevoli da porsi. Ancora una volta, invece, mi pare predominino le reazioni solo emotive. Siamo troppo impegnati a piangere sul «massacro» o a festeggiare la «liberazione», per guardare alle contraddizioni profonde che restano da entrambe le parti della barricata. Quelle che rischiano di far sì che nemmeno questo scontro casa per casa sia l’ultima pagina della tragedia siriana. È così fin dall’inizio: Assad sì/Assad no. Nient’altro. Come se russi, iraniani, americani, europei, curdi, turchi, sauditi e qatarioti fossero tutte parti impegnate in questo conflitto in maniera disinteressata e con obiettivi nobili.
La verità è molto diversa. E il dopo Aleppo, ad esempio, probabilmente mostrerà che anche tra quelli che oggi appaiono come i vincitori del conflitto (Assad, l’Iran e la Russia) gli obiettivi di lungo termine in Siria sono tra loro diversi. In particolare quelli di Mosca e di Teheran sono destinati molto presto a entrare in rotta di collisione. Lo si sta vedendo già in queste ore in cui la Turchia – riavvicinatasi in maniera clamorosa all’orbita russa, dopo il fallito golpe di quest’estate – ha cercato di trattare con Putin l’evacuazione verso Idlib delle ultime sacche di ribelli asserragliati dentro Aleppo. Martedì sera un accordo era stato anche sottoscritto, ma è rimasto lettera morta perché di traverso si sono messe le milizie sciite, presenza fondamentale oggi tra le truppe di terra che affiancano l’esercito di Damasco, numericamente ridotto all’osso da cinque anni di guerra.
Dietro a questo braccio di ferro se ne intravede chiaramente già un altro, più sostanzioso: chiusa la pratica Aleppo, l’offensiva lealista andrà avanti ancora oppure no? In Siria nelle mani dei ribelli resta intanto la provincia di Idlib; poi c’è tutta la fascia a nord di Aleppo dove – con un tacito accordo – dall’estate scorsa i russi hanno lasciato entrare i carri armati turchi a sostegno dell’Esercito Siriano Libero, impegnati a evitare l’incubo di Ankara e cioè l’espandersi dei territori controllati dai curdi siriani; infine c’è anche Raqqa, tuttora nelle mani dello Stato islamico (Isis).
Quando Bashar al Assad dice che riprenderà il controllo di tutta la Siria indica un’intenzione chiara, condivisa da Teheran. Ma una vittoria solo militare in queste aree abitate prevalentemente da sunniti e curdi ed estranee a quella che Mosca ha sempre definito la «Siria utile» è anche nell’interesse della Russia? Di certo aprirebbe un terreno di scontro con la Turchia, cosa che Putin oggi non vuole. Inoltre farebbe pendere ulteriormente il piatto della bilancia in Medio Oriente dalla parte degli iraniani; uno scenario, questo, che non piacerebbe nemmeno al governo statunitense che si insedierà a gennaio con Donald Trump, sulla cui sponda il Cremlino sembra puntare molto.
Quanto all’altra parte della barricata – quella del fronte anti-Assad – con la caduta di Aleppo appare chiaro il prezzo pagato al dilagare delle formazioni islamiste radicali. Ma anche il ruolo giocato in tutto questo da Ankara: prima ha contribuito per anni a far crescere le posizioni oltranziste, poi le ha scaricate per concentrarsi nella guerra ai curdi con la benedizione di Mosca. Oggi infine – caduta Aleppo – sembra voler tornare in gioco come garante dei sunniti nella Siria di domani. Sarebbe bello sapere che ne pensano di tutte queste giravolte di Recep Tayyip Erdoğan l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo. Resteranno davvero a guardare?
Per farla breve: i tanti interessi in gioco nella guerra in Siria non finiscono con la caduta di Aleppo; molte delle guerre parallele che hanno permesso all’Isis di prosperare in questi anni restano comunque aperte. Ed è il motivo per cui – oggi più che mai – ci sarebbe bisogno della politica. Senza una conferenza di pace in cui si trovi un’intesa sugli equilibri in Medio Oriente da questa carneficina non si esce: con le vittorie militari si sposta il fronte da un’altra parte, magari si rimescola qualche alleanza. Ma il conflitto resta.
Sta alla politica ritrovare la forza di dare risposte di pace, che permettano ai siriani di ricostruire davvero il proprio Paese, non solo materialmente ma anche come comunità. E l’unica strada è provare a guardare avanti, anziché pensare a regolare i conti.
—
Clicca qui per leggere un’analisi di Andrew Talber sul dopo Aleppo pubblicata sul sito del Washington Institute for Near East Policy
Clicca qui per leggere un articolo di Al Monitor sulla Turchia e la situazione di oggi in Siria
Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.