La Turchia cammina sull’orlo del conflitto aperto: dall’alba di venerdì 4 novembre, quando la polizia ha fatto irruzione nelle case dei leader del Partito democratico dei popoli (Hdp), fazione di sinistra pro-curda, gli avvertimenti di analisti e giornalisti si sprecano. Ankara è sull’orlo della guerra civile.
Di guerra aperta si può in realtà parlare da un anno e mezzo, dalla fine di luglio 2015, quando il fragile processo di pace con il Partito curdo dei lavoratori collassò sotto i colpi del presidente Erdogan: uscito ammaccato dalle elezioni di giugno, quando l’Hdp registrò un boom con un 13 per cento di voti alle parlamentari, il Partito per la democrazia e lo sviluppo – Akp, al governo – ha lanciato una brutale campagna militare e politica contro la comunità curda.
Nel tempo quella campagna ha assunto forme diverse: ai coprifuoco e ai bombardamenti contro le città curde a sud est sono seguiti attacchi a stampa indipendente e membri dell’Hdp. Così, mentre nel Kurdistan turco continuano ad essere imposti coprifuoco, gli scranni del parlamento destinati ai deputati Hdp si sono svuotati.
Dodici di loro sono stati arrestati, tra loro i due co-presidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, rinchiusi in isolamento in carceri di massima sicurezza. Dal 4 novembre sono 441 i membri del partito detenuti, oltre 6 mila dal 15 luglio, il giorno del fallito colpo di Stato militare che ha aperto ad una campagna di epurazioni senza precedenti. Buona parte di loro sono amministratori locali, in manette mentre i loro comuni venivano commissariati con l’accusa di sostegno al terrorismo e al Pkk.
A monte sta una precisa strategia governativa che si fonda sulla minaccia all’unità della Turchia, non una democrazia multietnica ma un’identità unica volta alla “turchizzazione” della società. Una forma di grave nazionalismo che ha le sue radici nel mito dell’Impero ottomano più volte esaltato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. In tale contesto un partito come l’Hdp, radicalmente contrario alla riforma costituzionale in senso presidenziale voluta dal leader dell’Akp, è un ostacolo significativo. L’unico ostacolo rimasto dopo il tentato putsch di metà luglio, che ha spinto tra le braccia del governo le altre opposizioni, repubblicani e nazionalisti, e che ha cancellato ogni voce critica: oltre 370 associazioni sono state chiuse con l’accusa di legami con l’imam Fethullah Gulen (considerato la mente dietro il fallito golpe) o con il Pkk, quasi 200 i media privati della licenza, chiusi o commissariati e 140 i giornalisti in prigione.
Quella che opera è una macchina collaudata in cui agiscono all’unisono potere politico, giudiziario, mediatico ed economico: con migliaia di giudici e procuratori sostituiti dopo il 15 luglio con personalità vicine al presidente Erdoğan, con l’operatività di una sola stampa, quella filogovernativa, con aziende potenti legate a doppio filo alla famiglia Erdoğan e al suo establishment, il governo ha montato ad arte una campagna epurativa che ha travolto il solo partito di opposizione rimasto.
«Il principale obiettivo dell’ultima campagna sono stati Demirtas e Yuksekdag – ci spiega Ikfan Aktan, giornalista curdo per il think tank al-Monitor – Demirtas è stato il solo vero rivale di Erdoğan alle elezioni presidenziali e ha ottenuto sostegno non solo dai curdi ma anche da molti elettori turchi. L’Hdp è così diventato un attore influente in tutto il Paese e Demirtas il leader più carismatico della sinistra curda».
In tale veste è anche il principale ostacolo al sogno presidenzialista di Erdoğan, impedendo all’Akp di ottenere la maggioranza assoluta alle elezioni di giugno 2015. Nonostante lo stallo governativo e il voto anticipato di novembre, che ha permesso all’Akp di tornare il partito con maggioranza assoluta, in parlamento i 58 deputati Hdp impediscono di far passare la riforma costituzionale.
«Gli arresti dei deputati Hdp segnano l’inizio di una nuova forma di repressione di lungo periodo, non più meramente militare ma politica, ad alti livelli, non più solo quelli locali e amministrativi. Per la sinistra turca e la comunità curda non c’è altra possibilità che resistere democraticamente. Un’operazione complessa se si tiene conto della chiusura di tutti i media indipendenti: sono 10 mila i giornalisti che hanno perso il lavoro negli ultimi mesi».
«Si può leggere l’attuale strategia politica dell’Akp come parte di una più ampia azione che copre anche Iraq e Siria – conclude Aktan – Ma lo è solo parzialmente: la repressione contro l’Hdp è un affare interno. Solo mettendo sotto silenzio l’opposizione, Erdoğan potrà ottenere il presidenzialismo che cerca da anni. Dalla sua ha una base di consenso forte, composta da buona parte dei cittadini turchi tendenzialmente nazionalisti e terrorizzati dalla crisi interna». In tale contesto l’Hdp, come il Pkk, sono lo spettro più efficace da sventolare. Molto più dello Stato Islamico.