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La riconquista di Mosul non lenisce le ferite dei cristiani

Giorgio Bernardelli
23 novembre 2016
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La riconquista di Mosul non lenisce le ferite dei cristiani
Mosul. Foto chiesa Vergine immacolata distrutta. Nella Piana di Ninive il patrimonio religioso cristiano è ridotto a un cumulo di macerie.

L’avanzata dell’esercito iracheno e dei peshmerga curdi contro l'Isis in Iraq ha restituito qualche luogo importante a chi nell'estate 2014 perse tutto. Le incognite sul futuro, però, restano pesanti.


La Divina Liturgia celebrata a lume di candela, dentro ciò che resta della chiesa dopo due anni di devastazioni e saccheggi dell’Isis. Il rito che l’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, monsignor Petros Mouche, ha presieduto il 30 ottobre scorso nella chiesa dell’Immacolata a Qaraqosh – la più grande tra le cittadine cristiane della Piana di Ninive strappate al sedicente Califfato – è il simbolo più eloquente del momento che i cristiani dell’Iraq stanno vivendo in queste settimane.

L’avanzata dell’esercito iracheno e dei peshmerga curdi nella campagna per la riconquista di Mosul sta restituendo qualche luogo importante a chi tra il giugno e l’agosto del 2014 ha perso tutto. Ma le proporzioni della devastazione subita da chiese, tesori d’arte e cultura, strutture, persino migliaia di semplici case, sta apparendo in tutta la sua drammaticità. Accompagnata da incognite pesanti su un futuro che gli interessi delle fazioni impegnate nella guerra al sedicente Stato islamico rendono tuttora molto nebuloso.

«A Qaraqosh, dove abitavano oltre 60 mila persone, il 90 per cento delle abitazioni è distrutto o bruciato – ha raccontato all’agenzia Sir padre George Jahola, dell’arcidiocesi siro-cattolica di Mosul –. Stiamo lavorando con alcuni giovani volontari a un inventario dello stato delle strutture. Ad oggi possiamo dire che oltre 6 mila abitazioni sono da demolire e da rifare da capo. Ci aspettavamo di trovarci davanti a case spogliate, derubate, ma non bruciate e distrutte». E se questa è la situazione a Qaraqosh i punti di domanda non possono che aumentare quando si rivolge lo sguardo a Mosul, la grande città tuttora nelle mani dell’Isis e dove la battaglia non si annuncia affatto breve e indolore. Sono ferite che sfregiano una città che non è solo l’erede dell’antica Ninive, ma anche un crocevia importante del cristianesimo del primo millennio. Perché parlare di Mosul significa riportare alla mente il grande patrimonio del cristianesimo assiro, dal cui alveo sono nate le Chiese caldea e siro-cattolica. Comunità le cui origini risalgono alla predicazione apostolica: è un dato storico la presenza di comunità cristiane a Mosul fin dal II secolo. Per esempio: la chiesa mariana dell’Al Tahira, la più antica, risale al VII secolo; in che condizioni si trova oggi? Nessuno lo sa davvero.

Mosul, inoltre, ha una storia significativa anche per i domenicani: l’ordine dei predicatori vi era giunto già nel XIII secolo, anche se poi con la caduta del regno crociato nel 1291 tutti i religiosi presenti qui subirono il martirio. Nel 1750, però, papa Benedetto XIV volle ricominciare questa storia: inviò di nuovo i domenicani a Mosul. E la loro presenza avevano messo radici, al punto che sono nate due congregazioni femminili irachene che si rifanno al carisma domenicano e avevano la loro casa madre proprio nella grande città del nord dell’Iraq. Anche tutte queste realtà nel 2014 sono diventate esuli.

E proprio la chiesa dei domenicani è diventata un altro simbolo tragico della persecuzione dell’Isis contro i cristiani: nel giugno scorso i jihadisti l’hanno fatta saltare in aria con la dinamite. Ultimo sfregio in una serie infinita di violenze che – non bisogna dimenticarlo – sono cominciate ben prima dell’estate 2014. Perché Mosul è anche la città dell’arcivescovo caldeo Paulos Faraj Rahho, presule martire ritrovato ucciso qui nel 2008. E prima di lui, l’anno precedente, era capitato anche a padre Ragheed Ganni, giovane sacerdote anche lui caldeo. Non si facevano ancora chiamare Isis, non c’erano le lettere nun dipinte sui muri delle proprietà dei cristiani, ma i jihadisti già allora colpivano duro nel nord dell’Iraq. E proprio da qui si capisce la freddezza con cui molti esuli cristiani di Mosul e della Piana di Ninive guardano oggi alle notizie sulla «liberazione» dai campi profughi di Erbil o della Giordania, dove oggi vivono. Chi è davvero in grado di garantire loro che domani – anche qualora fossero ammainate le bandiere nere – non ricomincerà tutto daccapo?

Sono tante le incognite e anche le ombre in questa liberazione in cui milizie sciite filo-iraniane, turchi e curdi sembrano già pronti per il prossimo scontro. Eppure la Divina Liturgia nella ritrovata Qaraqosh, i libri sacri salvati tra i muri anneriti, le comunità cristiane che nella devastazione della Piana di Ninive provano a ricostruire, restano ugualmente un segno di speranza in questo Natale. Accompagnato da un appello che il patriarca caldeo Louis Raphael Sako sta lanciando ai cristiani delle altre confessioni: dare vita per la prima volta a un Consiglio delle Chiese in Iraq. Un’istanza unitaria dei cristiani per indicare anche al Paese un’unità più grande, contro il settarismo dilagante. Perché dalle macerie di Ninive si possa uscire davvero, ricostruendo una fraternità più forte di ogni violenza e divisione.

Terrasanta 6/2016
Novembre-Dicembre 2016

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