Dura la vita per le donne, in Yemen, in tempi di guerra! Non soltanto la sopravvivenza è più difficile a causa del sistema sanitario al collasso, soprattutto per madri, puerpere e donne incinte, ma la crisi economica e il settarismo stanno dando una spallata notevole a un motore potente e silenzioso di questa società.
A Taiz, come riporta il quotidiano The National, la crisi economica ha costretto molte donne e i loro mariti a mettere in vendita la dote e/o la gioielleria di famiglia, per procurarsi il necessario, in particolare cibo e medicine e, in seconda battuta, abiti. Si tratta di un fenomeno esponenziale, a causa dell’assedio e dell’isolamento che la città sta subendo e che ha avuto una notevole impennata durante l’ultima festività di Eid al Ahda (ricorrenza celebrata il 13 settembre scorso).
La classe media – insegnanti, dentisti, commercianti – è quella che utilizza più delle altre i compro-oro per potersi procurare liquidi bastevoli per il sostentamento della famiglia: le donne hanno solitamente un ammontare di oro di esclusiva e personale proprietà che vale come capitale a cui ricorrere in caso di vedovanza, divorzio, abbandono o estrema necessità. Cederlo per i bisogni della famiglia non è obbligatorio e una donna che accetta di farlo consapevolmente dovrà essere ripagata dal consorte.
Hani al Adimi, tecnico di un’azienda che importa materiale per dentisti e odontotecnici, la Teeth Tools di Taiz, ha raccontato al quotidiano The National che non avrebbe mai immaginato di dovere vendere l’oro della moglie. «Per me è un disonore, ma stiamo morendo tutti di fame. Non possiamo vedere i nostri figli morire così».
Al Adimi ha dichiarato che la moglie, benché non obbligata a farlo, è molto felice di essere utile alla famiglia: «Con i soldi ricavati dalla vendita dell’oro potremo vivere per altri otto mesi. Finiti questi mesi, davvero non sappiamo cosa fare».
Attualmente, dopo che una tregua di 72 ore non ha avuto successo e il presidente legittimo Abdo Raboo Mansour Hadi ha rifiutato qualsiasi soluzione diplomatica, il Paese entra nella fase più terribile di questo anno e mezzo di guerra, iniziata nel marzo del 2015. I bombardamenti della coalizione del Golfo a guida saudita si sono nuovamente intensificati – l’ultimo ha colpito la prigione di Hodeida, causando 58 vittime – e sarà sempre più difficile raggiungere alcune province, in particolare Taiz, per permettere l’arrivo di adeguati aiuti umanitari. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite (Unicef e Fao) almeno un milione e mezzo di bambini sono malnutriti e la metà della popolazione è assediata dalla fame, con 7 milioni di yemeniti in «disperato bisogno di cibo». Le donne – a cui va il peso e, in questo momento, il rischio della gravidanza – sono la seconda categoria più esposta a malnutrizione, morte, possibilità di contrarre malattie infettive, come il colera in ampia diffusione nel Paese.
A questi pericoli si aggiungono le derive settarie. Come la fatwa che ha colpito le attiviste di Taiz, la città in prima linea sul fronte di terra nel contrasto tra le forze lealiste e i ribelli Houthi. La fatwa è stata pronunciata già tre mesi fa, ma è vigente solo adesso: emanata da Abdullah al-Odaini, un preminente predicatore islamico salafita, membro del parlamento yemenita e imam della moschea al-Noor di Taiz, sottolineerebbe la proibizione del lavoro promiscuo tra donne e uomini nello stesso luogo e nelle stesse circostanze, nonostante le necessità che la guerra impone. Anche una situazione eccezionale – secondo al-Odaini e la sua scuola di pensiero – non renderebbe possibile infrangere le regole che prescrivono la segregazione dei sessi.
La fatwa ha creato risentimento tra gli attivisti di Taiz: una ventina di uomini e donne impegnati nel progetto Love it, volto a identificare e registrare le violazioni che i commando dei ribelli houthi compiono in città, per poi diffonderli sui social media.
In particolare, Naseem al-Odaini, che ha monitorato queste violenze usando solo il suo computer e il suo telefono a partire dall’inizio della guerra, intervistata dal media in lingua inglese Middle East Eye, si è difesa sostenendo che gli attivisti appartengono allo stesso movimento dell’imam, la Resistenza Popolare, e che gli abitanti di Taiz si sono sempre aiutati a vicenda. «Abbiamo superato le paure, creando uno strumento di controllo della società civile sulle azioni di guerra. La nostra presenza in questi gruppi è fondamentale: le donne posso parlare con le donne e raccogliere con maggiore confidenza molte più informazioni sulle vittime di guerra».
E, coraggiosamente, ha puntato il dito contro la direzione del movimento, sempre più spostata verso un Islam fortemente conservatore: «Ci saremmo aspettate un reale supporto, visto che il nostro lavoro è stato apprezzato. Ma queste sono tutte azioni per intimidire le donne e renderle bersagli privilegiati dei gruppi islamisti. Che ci provino pure, ma non sarà questa fatwa a fermarci».