All’età di vent’anni Meir Green è diventato una vera star tra gli ebrei ultraortodossi in Israele, grazie alla sua voce e al suo talento musicale.
Ha alle spalle un percorso non facile. Nato a Gerusalemme in una famiglia di ultraortodossi, dopo aver frequentato diverse scuole rabbiniche (yeshivot) in vari Paesi in giro per il mondo, Meir si accorge di non trovarsi a casa in nessuno di essi e scopre, ben presto che «il mio vero percorso non includeva solo le note musicali del libro di preghiere, ma che avevo la musica del cuore».
«Fin da bambino sognavo di fare musica», confessa Meir. «Ma, essendo la mia famiglia ultra-ortodossa, non ho avuto molte opportunità per esprimere questa mia passione». Così, a 17 anni, si trova a vivere un periodo molto buio di crisi spirituale; si allontana dagli studi nelle yeshivot e inizia a mettere in dubbio ogni cosa. «Da quell’esperienza molto triste nasce la decisione di intraprendere una nuova strada».
Decide quindi di non abbandonare il suo credo e anzi, accetta un incarico di educatore in un istituto per giovani che si sono allontanati dalla pratica religiosa ebraica e sono desiderosi di mettersi nuovamente in ricerca. Insegna loro l’importanza dei rituali e della preghiera. «Strada facendo – racconta Meir – ho ritrovato la pace interiore. Anch’io ero abbandonato a me stesso, proprio come i ragazzi che mi erano affidati. È per questo che ho legato con loro così bene». È stato proprio durante questo percorso che nasce il suo primo singolo The Next Happiness, subito diventato un tormentone nella sua comunità.
«Questa canzone racconta la nostra storia – precisa Meir –. La storia di tutti i giovani: un ragazzo lotta con la madre, prende una borsa e fugge di casa. Va a vivere per strada, solo per rendersi conto di quanto sia sbagliato. E infine, scopre la “felicità vicina”, che si cela proprio dietro l’angolo».
Parlando delle chiusure e delle problematiche della comunità ultra-ortodossa, Green afferma che «i genitori e gli educatori non sanno come parlare ai ragazzi, come trattare ciò che essi considerano “adolescenza ribelle”». La musica allora può essere un linguaggio adatto per parlare a questa particolare fascia d’età, con le parole e le emozioni che essi comprendono.
«La caratteristica comune ai 300-400 ragazzi che ho conosciuto in questi anni è questa: vengono da famiglie che li hanno messi sotto pressione e non hanno dato loro lo spazio di cui avevano bisogno. Di qui i problemi», racconta. Ancora oggi Meir cerca di dare una mano ai ragazzi in difficoltà che lo contattano attraverso i social, nonostante il rapporto con alcuni di essi non sia affatto facile. Il singolo Broken Heart, per esempio, è stato composto in seguito ad una discussione durante la quale un ragazzino a cui faceva da mentore, ha alzato le mani su di lui.
Fino a pochi mesi fa Meir Green lavorava in una yeshiva e nel tempo libero si dedicava anche alla sua musica. Proprio la comunità ultra-ortodossa alla quale appartiene non ha però preso bene la recente partecipazione di Green ad un talent show, cosicché il ragazzo ha dovuto abbandonare il lavoro. Pur non infrangendo nessuna legge, ai responsabili della scuola rabbinica non è parsa opportuna la sua eccessiva visibilità. La decisione non è stata facile per Meir, che però non la rimpiange. «Non posso nascondere il mio modo di vedere il mondo e il mio talento musicale. A volte il prezzo da pagare è alto, ma so che la mia scelta viene dall’amore».