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L’occhio del fotografo etico sui bimbi lavoratori siriani

Manuela Borraccino
26 ottobre 2016
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L’occhio del fotografo etico sui bimbi lavoratori siriani
Cave e fabbriche di cemento. I bambini che lavorano e vivono nelle cave o nelle fabbriche sono soggetti a molti rischi. Uno degli scatti della mostra The Factory Boy. (© foto: Unicef/Laura Aggio Caldon)

Il Festival della Fotografia etica a Lodi fino al 30 ottobre ospita The Factory Boy, la denuncia dell'Unicef sullo sfruttamento minorile nelle foto di Laura Aggio Caldon.


Ahmed, 11 anni, intento a controllare la miscela di sabbia della fabbrica di cemento dove lavora per sei dollari al giorno; Youssef, 13 anni, che si porta le mani sugli occhi, esausto dopo 12 ore di turno in una discarica dove deve separare i materiali riciclabili dai rifiuti non recuperabili; Ibrahim, 13 anni, che «ha perso la ragione» durante i bombardamenti nelle parole della mamma, mentre sbircia da uno squarcio aperto in un telo di plastica quanto manca alla fine del turno nella cava dove lavora. Istantanee degli effetti della mattanza siriana sulla generazione perduta, la lost generation come l’Unicef ha definito i piccoli siriani che la guerra ha strappato alla scuola e alle loro stesse case. E che ora sopravvivono come profughi in Libano, ma costretti a lavorare per mantenere la famiglia: «la maggior parte dei bambini che ho incontrato avrebbero voluto continuare a studiare – spiega la fotografa romana Laura Aggio Caldon, 32 anni, tra i protagonisti del Festival della Fotografia etica in corso a Lodi fino al 30 ottobre – ma sono obbligati a lavorare in nero o per l’assenza dei padri rimasti in Siria, o per racimolare i 200 dollari a persona che lo Stato libanese chiede ai profughi per il permesso di soggiorno: sono cifre proibitive per famiglie con 7-8 figli che hanno dovuto lasciare tutto per fuggire dalla guerra».

Cantieri edili dove i bambini lavorano in solitudine, nell’assenza delle più elementari norme di sicurezza e di anti-infortunio, cave di pietra, stazioni di servizio: la fotoreporter ha documentato negli sguardi seri e spenti di questi giovani adulti cosa ha comportato la carneficina siriana per centinaia di migliaia di minori.

Nel 2009 il 94 per cento dei bambini siriani frequentava le elementari e le superiori: nel giugno 2016, secondo i dati del recente rapporto sull’istruzione in crisi dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, solo il 60 per cento si trovava in un percorso scolastico, con più di 2 milioni di minori fuori dalla scuola. Dei 4 milioni e 800 mila rifugiati siriani che l’Acnur ha registrato nei Paesi vicini, il 35 per cento è in età scolare: solo in Libano, su un milione e 200 mila profughi siriani, risultano 380 mila i minori di età compresa fra i 5 e i 17 anni ed appena il 40 per cento è inserito nel percorso scolastico di elementari, medie e superiori. «Come Unicef – spiega a margine della mostra il portavoce di Unicef Libano, Hedinn Halidorsson – cerchiamo di mettere i genitori in condizione di mandare i figli a scuola o in un percorso di formazione professionale. Laddove non sia possibile perché il minore è l’unica fonte di sostentamento della famiglia, chiediamo al datore di lavoro di pagarlo di più e farlo lavorare per meno di 12 ore al giorno».

Il ragazzo della fabbrica, ospitata nel chiostro dell’Archivio storico, è una delle 18 mostre del Festival della Fotografia etica in corso fino a domenica 30 ottobre a Lodi, giunto alla settima edizione con il record di presenze nel 2015 di 9.862 visitatori seguiti da 300 volontari nelle bellissime sedi del patrimonio storico-artistico laudense. «Il nostro obiettivo è quello di avvicinare il maggior numero possibile di persone alla fotografia impegnata, la fotografia che interpella le coscienze e parla della condizione umana», spiega il fotografo Alberto Prina, fondatore e condirettore artistico del Festival con Aldo Mendichi. Così sono nati i potenti reportage dalle carceri femminili iraniane di Sadegh Souri (in programma sabato 29 la visita guidata con l’autore), vincitore con Waiting Girls del World Report Award 2016 e quello dalle banlieue parigine di Arnau Bach con Suburbia; il viaggio Days of night – Nights of Day con Elena Chernyshova nella città siberiana di Norsilk, uno degli otto centri urbani più inquinati al mondo, ed il racconto della malattia e della morte di Nancy Borowick, che in A Life in Death ha documentato l’ultimo anno di vita dei genitori, entrambi malati di tumore.

In tutto diciotto mostre di respiro internazionale e di grande potenza espressiva che offrono «un occhio sul mondo» e non pochi spunti di riflessione sui temi dei diritti umani, della tutela dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile, del cammino della giustizia e delle democrazie, della condizione delle donne, dell’inclusione sociale, del rispetto delle minoranze. Qualcuno ha definito gli organizzatori «gli agricoltori della fotografia». «Penso sia la definizione più azzeccata – sorride Prina – perché i contadini non sfruttano: fanno crescere».

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