Pochi lo hanno ricordato fuori da Israele e dalla Palestina, ma in questi giorni ricorre un anno dall'inizio dell'intifada dei coltelli. Qual è il bilancio di questi dodici mesi? E la scomparsa delle notizie dalle cronache dei giornali significa che anche questa ondata di violenza si è conclusa? Oppure no?
Pochi lo hanno ricordato fuori da Israele e dalla Palestina, ma il ritorno delle festività ebraiche aperte da Rosh ha Shanà – il capodanno ebraico, celebrato nei giorni scorsi – significa che è trascorso un anno dall’inizio dell’intifada dei coltelli. Qual è il bilancio di questi dodici mesi? E la scomparsa delle notizie dalle cronache dei giornali significa che anche questa ondata di violenza si è conclusa oppure no?
A dare uno sguardo complessivo su questo fenomeno aiutano due articoli diversi pubblicati in questi giorni su due fonti, una palestinese e l’altra israeliana. Il primo è «La morte in numeri, un anno di violenze», rapporto molto dettagliato pubblicato da MaanNews, la più importante agenzia di informazione palestinese. Il terreno è incandescente, nel senso che – come chi segue il Medio Oriente sa bene – anche il conteggio delle vittime non è affatto un’operazione neutrale. Ma il lavoro di MaanNews ha il pregio di essere molto dettagliato e trasparente sui criteri. Apprendiamo, dunque, che tra il primo ottobre 2015 e il 30 settembre 2016 l’agenzia ha registrato tra Israele, Cisgiordania e Gaza 274 persone morte a causa di episodi violenti: 235 palestinesi, 34 israeliani e 5 stranieri. Dopo il picco del mese di ottobre 2015, i numeri sono rimasti alti fino ad aprile per poi scendere un po’ in estate; ma va anche detto che sono ricominciati a salire nel mese di settembre.
È importante, però, non fermarsi solo al dato generale, ma guardare dentro a questi numeri. Ad esempio alla distinzione che MaanNews propone sulle diverse circostanze in cui i palestinesi sono stati uccisi: ad esempio quante sono le persone sicuramente uccise mentre stavano tentando di assalire qualcuno e in quali casi, invece, si tratta di episodi in cui la dinamica è contestata. Oppure il dato che tra le 34 vittime israeliane solo 7 erano soldati o agenti di polizia.
Ma l’elemento più interessante è il profilo del palestinese tipo rimasto ucciso in questi dodici mesi; secondo la rilevazione di MaanNews è giovane, intorno ai vent’anni, proveniente dal distretto di Hebron, morto sotto i colpi dell’esercito israeliano.
L’età è un dato fondamentale: la media generale rilevata è 23 anni, ma l’età più ricorrente è 19. Un quarto di questi morti palestinesi nell’intifada dei coltelli, poi, sono addirittura sotto i 18 anni. Continua ad essere, dunque, un’intifada dei ragazzini. Rivolta generazionale che è anche una protesta rispetto alla leadership palestinese. Non è una lotta per le fazioni o per un obiettivo, ma la risposta nichilista di chi non ha speranze nel futuro. Emblematico il caso della ragazzina che pochi giorni fa al valico di Qalqilya è andata dritta incontro ai soldati del check-point senza fermarsi, nonostante non avesse con sé né un’arma né un coltello. E – una volta ferita a un ginocchio – ha dato la risposta agghiacciante: «Volevo solo morire».
L’altro dato fondamentale è la distribuzione geografica: certo, ha colpito pesantemente Gerusalemme l’intifada dei coltelli. Ma il luogo dove si sono registrate più morti è il distretto di Hebron: ben 62 quelli palestinesi, 8 quelli israeliani (appena uno in meno rispetto a Gerusalemme).
È l’intifada della disperazione e ha come epicentro il luogo per eccellenza della disperazione: la città di Abramo, quella più tradita dal fallimento degli accordi di Oslo. L’ha descritta bene qualche giorno fa Nahum Barnea in un suo reportage pubblicato su Yediot Ahronot. «Ogni volta che arrivo a Hebron rimango colpito dalla depressione che si respira ovunque. Non c’è luogo più deprimente, sconcertante, pieno di ostilità tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, nemmeno i campi profughi di Gaza». Hebron dove tutto è paralizzato dalla convivenza impossibile tra alcune centinaia di coloni oltranzisti e 40 mila residenti palestinesi; Hebron dai negozi sprangati da anni per ragioni di sicurezza su Shuhada Street; Hebron dove i bambini imparano piccolissimi a respirare il gas dei lacrimogeni.
Hebron è il cuore dell’intifada dei coltelli. E il luogo dove è proprio questa disperazione a dire a tutti: nonostante i numeri, l’intifada dei coltelli non è affatto finita.
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Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.