Con il solo hashtag #StopEnslavingSaudiWomen (ed il suo equivalente in arabo) in Arabia Saudita sono state raccolte in poche settimane migliaia di adesioni. E i video che raccontano l’oscurantismo con le quali la società saudita tratta la metà della sua popolazione sono diventati subito virali. La campagna lanciata su Twitter, e divenuta popolare anche su Instagram, dalla scrittrice Hams Sonosi con l’associazione Donne saudite contro l’emarginazione (Saudi Women Against Marginalization) ha subito attirato gli strali delle massime autorità religiose del Paese e non è facile prevederne gli sviluppi. Non è la prima volta che le saudite cercano di por fine al sistema di tutela maschile del Regno, che resta l’impedimento più importante per i diritti delle donne (nonostante le riforme annunciate e, in parte, avvenute negli ultimi anni) come rimarca il rapporto diffuso a luglio da Human Rights Watch. Ma è forse la prima volta che una campagna di questo tipo grazie a Twitter, che nel Regno saudita registra il numero di utenti più alto al mondo in proporzione alla popolazione, sfugge ai canali tradizionali di controllo delle autorità e veicola un messaggio di rivolta e mobilitazione così esplicito contro la tutela dei parenti maschi.
Da diversi anni le speranze della popolazione femminile saudita si appuntano sull’aumento della partecipazione alla forza lavoro. Ma tra le donne il tasso di occupazione rimane uno dei più bassi al mondo: si aggira intorno al 14 per cento secondo i dati ufficiali, malgrado il fatto che ci siano oltre 25 mila imprese a guida femminile nel Regno. Benché primeggino in molti campi, dalla docenza universitaria alla finanza, in patria le saudite continuano ad essere cittadine di serie B o «minorenni a vita» nella definizione dell’organizzazione umanitaria. Una serie di leggi le mette dalla nascita alla morte sotto la protezione di un «guardiano», sia esso il padre, il fratello o il marito. Sarà il guardiano, per tutta la vita, a controllare le scelte della donna di cui è responsabile: a stabilire se e quando potrà viaggiare e lavorare, aprire un conto corrente, fare ricorso a un tribunale. «Mio figlio è il mio tutore – dice nel rapporto una donna di 62 anni – e questo è davvero umiliante! Mio figlio, che io ho cresciuto, è il mio custode».
Che la strada sia tutta in salita lo mostra anche la reazione, rigorosamente a colpi di tweet, da parte del fronte contrario all’abolizione della tutela: con l’hashtag #SaudiWomenProudOfGuardianship l’accademica Amerah Saeidi ha ribadito che gli abusi di alcuni guardiani contro le loro assistite dovrebbe essere affrontata per mezzo delle leggi esistenti e non abrogando la sharia.