Fra Pierbattista Pizzaballa (51 anni), dopo 12 anni di ministero come Custode di Terra Santa, riceverà l’ordinazione episcopale sabato prossimo, 10 settembre, nella cattedrale di Bergamo. Il rito sarà presieduto dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, affiancato dal vescovo della città orobica, mons. Francesco Beschi, e dal patriarca latino emerito di Gerusalemme mons. Fouad Twal. Tra i numerosi concelebranti ci sarà anche l’attuale Custode di Terra Santa, fra Francesco Patton.
Resa nota il 24 giugno scorso, la nomina di fra Pierbattista, nonostante qualche voce in merito fosse filtrata nelle settimane precedenti, è stata piuttosto inaspettata. Allo scadere del mandato di mons. Twal, il Papa ha deciso di inviare a Gerusalemme un amministratore apostolico, figura a cui la Santa Sede ricorre, dopo l’uscita di scena del vescovo, per amministrare con pieni poteri una diocesi che si trovi in condizioni particolari (e che formalmente resta sede vacante).
«La mia sorpresa è stata anche la sorpresa di molti – spiega mons. Pizzaballa, originario di Cologno al Serio (Bergamo) -. Immagino che alcuni siano stati contenti, altri probabilmente meno. È nell’ordine delle cose che sia così. Ma dopo diverse settimane dalla presa di possesso della diocesi posso dire che mi trovo in un ambiente positivo e desideroso di camminare, guardando avanti con fiducia».
Alla vigilia della consacrazione episcopale, abbiamo chiesto al neo arcivescovo con quale atteggiamento ha accettato di «tornare a Gerusalemme».
«L’ho scritto nel mio messaggio alla diocesi: “Torno a Gerusalemme con il desiderio di servire innanzitutto il clero locale e tutta la comunità, chiedendo a tutti comprensione, amicizia e collaborazione”».
Il suo motto episcopale è «Ti basta la mia grazia» (espressione tratta dal capitolo 12 della Seconda lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto). Per quale ragione ha scelto questo passo?
Nel giorno in cui mi fu comunicata la decisione del Santo Padre, quest’espressione è stata anche il riferimento biblico dal quale si è partiti. È dunque questo il motivo della scelta: avere coscienza che la nostra missione altro non è che testimoniare la Grazia che per primi ci ha toccato e da questa continuamente ripartire.
La Terra Santa è crocevia di difficoltà e divisioni di ogni genere: tra le Chiese, tra le fedi monoteiste e tra i popoli che la abitano. Le difficoltà appaiono sempre enormi e insormontabili. In tale contesto, la Chiesa apparentemente sembra schiacciata da queste situazioni. Altri, invece, potrebbero cadere nella tentazione di ritenere d’essere chiamati a portare nei drammi di quella Terra la «loro salvezza», basata su propri mezzi e strategie.
Ebbene, in queste circostanze, la Parola di Dio ci ricorda che solo alla Grazia dobbiamo affidarci e a nient’altro. La Chiesa di Terra Santa non ha mezzi e non ha potere. Ha solo Cristo e la sua Grazia. «Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”» (Atti degli Apostoli, capitolo 3 versetto 6).
Il Patriarcato latino di Gerusalemme ha giurisdizione su Israele, Palestina, Giordania e Cipro. Qual è oggi la fotografia della diocesi?
Pur vivendo a Gerusalemme da 26 anni, sono solo all’inizio del mio servizio dall’interno di questa realtà. Direi, comunque, che tra i punti di forza vi sono proprio il radicamento locale, un clero giovane, una presenza capillare sul territorio con tante iniziative pastorali ed educative di vario genere, un forte spirito di comunità. Bisogna crescere nella consapevolezza delle nuove sfide pastorali ed educative. L’arrivo di nuovi cristiani provenienti dall’estero, specie da Asia e Africa, le nuove legislazioni sulle scuole, la multiforme presenza religiosa, una nuova forma di dialogo interreligioso. Ho sottolineato nel mio messaggio alla diocesi la necessità di «incontrarci e di accoglierci gli uni gli altri, costruendo strade e ponti e non muri: tra noi e il Signore, tra vescovi e preti, tra preti e laici, tra noi e i fratelli delle diverse Chiese, tra noi e i fratelli e amici ebrei e musulmani, tra noi e i poveri, tra noi e quanti hanno bisogno di misericordia e di speranza. Solo così potremo rispondere pienamente alla speciale vocazione universale della Chiesa di Gerusalemme, Chiesa dei Luoghi Santi».
Insomma, i versanti di lavoro non mancano.
Certamente. Un pensiero particolare lo voglio rivolgere ai giovani. Sono loro il futuro della nostra Chiesa e a loro guardo con speranza e con fiducia. Penso in particolare a coloro che sono coinvolti nelle varie iniziative del Patriarcato: nelle scuole, nelle parrocchie, nelle università. Sono luoghi importanti di incontro e di condivisione, che meritano tutta la nostra attenzione. Sono risorse preziose che aiutano i giovani a costruire il sogno del loro futuro qui, ma anche strutture per le quali è necessario che tutti noi, con chiarezza, trasparenza e solidarietà, ci impegniamo a sostenere.
In Giordania soprattutto, il Patriarcato latino è fortemente impegnato nell’accoglienza ai profughi di Iraq e Siria…
Attraverso la Caritas il Patriarcato sta facendo tutto il possibile: accoglienza, sostegno psicologico, assistenza legale, progetti di inserimento sociale… Non credo che sia possibile per una realtà come la nostra fare di più. È bello, inoltre, vedere come siano tanti i volontari locali che spendono tempo ed energie a sostegno di queste necessità. Non siamo però in grado da soli di far fronte alla situazione di milioni di rifugiati. Possiamo comunque essere una piccola oasi di serenità per migliaia di persone abbandonate.
La Chiesa di Gerusalemme vive a stretto contatto con il mondo musulmano. Quale insegnamento e quali suggerimenti può offrire all’Occidente, soprattutto dopo i recenti episodi terroristici?
Non dobbiamo avere paura. Non dobbiamo temere le novità e i cambiamenti. Un cristiano deve articolare il suo pensiero non partendo dai bisogni o dalle paure, ma dalla sua esperienza di fede, che deve illuminare le sue relazioni, con realismo ma sempre serenamente. Non c’è poi un solo Islam. Bisogna non generalizzare e cercare di comprendere le varie situazioni sempre nel loro contesto, senza paure e cedimenti.
Come rafforzare il sostegno alla Chiesa e alle opere di Terra Santa?
La Colletta del Venerdì Santo resta fondamentale. Ma bisogna lavorare molto sulla comunicazione. Se non si conosce, non si può nemmeno esprimere adeguatamente la propria solidarietà. Attraverso le comunicazioni ecclesiali – non penso sia facile andare oltre quel contesto – è importante fare conoscere le croci e, insieme, la bellezza di questa Chiesa. E quando parlo di Chiesa, intendo la Chiesa cattolica nella sua interezza, non mi riferisco solo a quella di rito latino. Non dimentichiamo che le nostre comunità cattoliche hanno un’unica confessione, quella di Pietro, pur con riti e tradizioni diverse. È un segno della storia particolarmente ricca e anche sofferta di questa Chiesa. Ci sono coordinamenti pastorali tra tutte le Chiese avviati da molti anni e che funzionano molto bene. Tutti i vescovi si incontrano periodicamente, molte riunioni si fanno insieme. Non mancheranno, immagino, distinzioni, ma prevale il senso di unità.
In diocesi ci sono attualmente due patriarchi emeriti, mons. Sabbah e mons. Twal. Come sono i suoi rapporti con loro?
Eccellenti. Nel nuovo ministero al quale sono stato chiamato so di non essere solo. Cammino con chi mi ha preceduto. Sono certo di poter contare sul sostegno di tutti. Mi affido soprattutto alla preghiera delle comunità contemplative della diocesi e di tutti i fedeli. Sento di averne estremamente bisogno.
Lo stemma di mons. Pierbattista Pizzaballa
arcivescovo titolare di Verbe
amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini
È consuetudine che, dopo la nomina da parte del Papa, ogni vescovo si doti di uno stemma e di un motto che lo accompagneranno per tutto il ministero episcopale. Di seguito vi proponiamo la spiegazione dello stemma e il motto di monsignor Pizzaballa.
Nello stemma arcivescovile adottato da mons. Pierbattista Pizzaballa appare la città di Gerusalemme così come nel Medioevo era tradizionalmente raffigurata sui sigilli del regno latino (cfr. S. De Sandoli, Corpus Inscriptionum Crocesignatorum Terrae Sancte, 1974, 128-140), ovvero come una città con mura e porta, da cui si alzano la cupola a cono dimezzato del Santo Sepolcro, la Torre di Davide e la cupola tonda dell’attuale Moschea, stilizzazione a cui era abbinato il motto Civitas Regis Regum omnium.
La colorazione riprende quella dello stemma di Gerusalemme durante il regno latino, quando la croce gerosolimitana era d’oro in campo argento. È una colorazione che l’araldica ritiene unica ed eccezionale, altrimenti non possibile perché vìola la nota convenzione dei colori negli stemmi di «non sovrapporre metallo a metallo e colore a colore», e che solo per Gerusalemme, per la sua unicità, venne accettata e ritenuta non un «errore». La scelta di questi colori è quindi un voluto omaggio alla città di Gerusalemme attribuendole quei colori più preziosi che a lei sola, l’araldica riconosce. L’oro in araldica simboleggia la fede, e la verità, l’argento la purezza, l’innocenza, l’umiltà, e la giustizia.
Anche oggi Gerusalemme mantiene la vocazione ad essere «casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 56, 7) e i tre luoghi simboleggiati nello stemma medievale sono anche un rimando alle differenti tradizioni religiose che in essa convivono e per la cui pacificazione è chiamato ad impegnarsi anche il vescovo.
Gerusalemme è il luogo del compimento del mistero della salvezza in Cristo, rappresentato nel Chrismon posto sul rotolo della Parola. Esso è posto in alto, quasi a illuminare la città e insieme la custodisce ed è pronto a discendervi.
Dio, che sostiene il suo servo con sua grazia, in questa città ha portato a pienezza quanto promesso al profeta Geremia nella visione del ramo di mandorlo: «Io vigilo sulla mia parola per realizzarla» (Geremia 1, 12). In essa è infatti nato Cristo, la Parola vivente, Colui che ha fatto dei due un popolo solo, prefigurato e annunciato nei due Testamenti.
«Da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la Parola del Signore» (Isaia 2,3 // Michea 4,2). Ancora oggi, ci ricordano i profeti, la Chiesa in Gerusalemme ha la particolare vocazione di testimoniare in un contesto particolare la vigilanza sulla Parola del Signore e di realizzarla.
Nel capo dello stemma sono raffigurate le braccia incrociate di nostro Signore con quelle di san Francesco d’Assisi, simbolo dell’Ordine Francescano, così come è d’uso per i vescovi appartenenti all’Ordine.
Lo scudo ovato in questa versione è quello che l’araldica definisce «a mandorla», forma elegante che si abbina in modo armonico ai consueti elementi distintivi dell’emblema arcivescovile.
Lo stemma, infine, è completato dai consueti contrassegni arcivescovili; la croce astile a due braccia su cui è posto lo scudo e il galero verde con 20 fiocchi, disposti 10 per lato.
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Il motto è: Sufficit tibi gratia mea («Ti basta la mia grazia»), tratto dal capitolo 12, versetto 9, della Seconda lettera dell’apostolo san Paolo ai cristiani di Corinto.
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Lo stemma descritto con la terminologia araldica:
D’argento alla città di Gerusalemme raffigurata come una cinta muraria uscente dai lati dello scudo, merlata di cinque alla guelfa, aperta del campo, cimata a destra da una cupola a cono troncato, al centro da una torre merlata di tre alla guelfa, a sinistra da una cupola ovoidale, il tutto d’oro, murato di nero e sormontato dal rotolo della Parola d’oro caricato del Chrismon di nero. Al capo d’azzurro al destrocherio posto in banda, vestito alla francescana, stimmatizzato di rosso e uscente da una nube d’argento movente dal fianco sinistro dello scudo, ed attraversato da un sinistrocherio simile, ignudo di carnagione, posto in sbarra, stimmatizzato di rosso ed uscente da una nube d’argento movente dal fianco destro dello scudo.