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Famiglia, identità, diritti delle donne: il caso turco

Manuela Borraccino
14 settembre 2016
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Famiglia, identità, diritti delle donne: il caso turco
Donne turche con bambini a Istanbul. (foto G. Caffulli)

In Turchia è allo studio una riforma del diritto di famiglia. Per la professoressa Kelly Pemberton - autrice di numerosi saggi sul Paese - si prospetta un passo indietro per i diritti delle donne.


Non c’è dubbio che le donne turche abbiano contribuito in modo significativo al successo del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Tuttavia per Kelly Pemberton – docente di Studi su religione e donne all’Università George Washington, nella capitale statunitense, e autrice di numerosi saggi sulla Turchia – il disegno di legge sul diritto di famiglia attualmente in discussione ad Ankara, se approvato, potrebbe segnare un passo indietro nei diritti delle donne, ed è «espressione della lotta in corso per la definizione dell’identità culturale turca» fra il kemalismo e le istanze della nuova classe media religiosamente conservatrice in ascesa con l’Akp.

Professoressa Pemberton, ha suscitato scalpore la pubblicazione in Turchia di un rapporto della cosiddetta Commissione parlamentare sui divorzi, che mirerebbe ad approvare un disegno di legge considerato da taluni come «l’ultimo chiodo piantato sulla bara dei diritti delle donne e dei minori». Lei che ne pensa?
Non mi pare che ci sia un vero dibattito pubblico sul rapporto provvisorio della Commissione parlamentare sul divorzio: non sembra essere una priorità in Turchia, e lo è ancora meno dopo il tentato golpe del 15 luglio scorso. Quel che è certo è che i gruppi di femministe e di attivisti laici vedono il rapporto come un grosso passo indietro nei diritti delle donne e dei minori: esso conterrebbe numerosi provvedimenti che puntano a rendere più difficile per una donna ottenere un divorzio, ottenere gli alimenti in caso di separazione e sottrarsi a un matrimonio violento. Alcuni degli elementi più controversi riguardano l’abbassamento dell’età minima per contrarre un matrimonio a 15 anni, mentre ora è di 17 anni: c’è da dire che viene fatto poco o nulla dal governo per combattere la piaga dei matrimoni delle minorenni o cosiddetti «matrimoni religiosi» (ufficialmente messi al bando). Le nozze di minorenni avvengono prevalentemente, e diffusamente, in Anatolia. Secondo alcune stime almeno il 33 per cento delle minorenni in Turchia sono, o sono state, sposate: in tal caso il matrimonio è anche un mezzo a disposizione degli uomini per aggirare il divieto di poligamia, dato che i matrimoni religiosi non vengono riconosciuti dallo Stato. Un altro aspetto controverso riguarda l’impunità per gli adulti che intraprendono relazioni sessuali con minori e non possono essere incriminati se poi sposano la minorenne. Molti attivisti la considerano una licenza per pedofili e stupratori, una prassi diffusa anche in diversi Paesi arabi e che è al centro delle battaglie degli attivisti per le donne e per i minori. Penso che il dibattito sul rapporto della Commissione per il divorzio riguardi fondamentalmente le ingerenze dello Stato nelle libertà individuali: il Diyanet (ministero degli Affari religiosi) apparentemente ha intensificato la propria presa sulle vite dei cittadini tentando di applicare l’ideologia dello Stato ai comportamenti morali.

Che cosa esprime a suo avviso questa vicenda nell’evoluzione della condizione delle donne in Turchia?
I laici vedono questo dibattito come una delle armi strategiche in una più ampia guerra contro le donne che ha conosciuto un’escalation dopo l’arrivo del partito Akp al potere: essi criticano l’ascesa dell’Islam politico ma lo vedono anche come un esempio della cultura patriarcale che attraversa tutte le classi sociali e le ideologie in Turchia, al di là della divisione fra laici e religiosi. I sostenitori dell’Akp d’altra parte vedono in questo tema il riflesso degli sforzi del partito per mantenere la stabilità nel Paese promuovendo l’unità della famiglia. Il risultato è che, mentre il rapporto della Commissione sul divorzio è chiaramente una questione politica, a mio avviso esso sembra essere anche espressione della lotta per la definizione dell’identità culturale turca. Questa lotta ha forgiato la Turchia sin dall’ascesa del kemalismo, ma ha assunto significati sottili, sfumati con la presa del potere da parte dell’Akp e la crescita di una classe media con l’inclusione di frangie della società rimaste ai margini per decenni, ma che ora si sentono finalmente rappresentate: essi avvertono che le loro voci vengono ascoltate e le loro preoccupazioni considerate dalle politiche dello Stato.

Il tasso di occupazione femminile ufficiale in Turchia non supera il 31 per cento, la quota più bassa dei Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Quali tendenze intravede per il futuro delle donne turche?
Io credo che le pressioni economiche sullo Stato, compresa la crisi dei rifugiati siriani e le tensioni con gli Usa e l’Unione Europea, avranno conseguenze negative sull’economia turca. Se questo avverrà, diminuiranno in modo significativo le opportunità per le donne di diventare più indipendenti economicamente e partecipi nell’economia ufficiale. C’è da dire però che da anni lo Stato cerca di aumentare l’occupazione femminile incoraggiando le donne ad entrare nel settore terziario e promuovendo politiche a favore della famiglia (soprattutto attraverso l’apertura di asili nido e l’offerta di contratti part-time finché i bambini non iniziano le elementari) che incoraggiano le donne ad entrare nella forza lavoro dopo la maternità. Grazie a queste misure la partecipazione delle donne all’economia formale è già cresciuta negli ultimi 5-6 anni: se l’economia turca rimane stabile, lo Stato continuerà ad incoraggiare questa partecipazione.

Qual è stato a suo avviso il ruolo delle donne nell’ascesa della nuova classe media anatolica e nel successo del partito di governo dell’Akp?
A partire dagli anni Novanta le donne con il velo sono state uno strumento che ha contribuito all’arrivo al potere del partito Refah e successivamente dell’Akp, anche con il porta-a-porta e la mobilitazione per portare altre donne a votare per questi partiti. Le donne sono servite anche per costruire delle aree economiche concorrenziali che puntavano a consumatori che si definiscono musulmani. Sebbene il velo sia stato messo al bando negli spazi pubblici nel 1989, e parzialmente permesso dal 2010, le donne col velo sono riuscite a raggiungere alti livelli di istruzione nelle grandi città: benché per molte di loro le opportunità di lavoro siano rimaste limitate negli anni Novanta e Duemila, quelle che hanno potuto sono emigrate nei Paesi del Golfo o in Paesi a maggioranza islamica e hanno mandato le rimesse a casa. D’altra parte l’Akp ha promosso incentivi fiscali per le famiglie con tre figli e questo, pur non essendo tra gli obiettivi di queste misure, ha portato molte donne a scegliere di stare a casa e non entrare nel mercato del lavoro formale. Queste politiche oggi convivono con una storia ormai lunga decenni nella quale dei gruppi orientati in senso islamico (organizzazioni formali e informali, sia civili che religiose) hanno cercato di promuovere i valori e la terminologia islamici nella società turca, e molti di essi si riflettono nel comportamento e nella rappresentazione del corpo femminile. Io credo insomma che l’Akp abbia dato una fortissima spinta propulsiva all’ascesa di questa fetta della popolazione turca religiosamente conservatrice, sempre più urbanizzata ed economicamente parte della classe media: la popolarità del partito resta relativamente alta fra questi cittadini, nonostante la crescente ondata di autoritarismo, la repressione della libertà di parola e l’apparente declino dei diritti delle donne sotto la guardia dell’Akp.

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