Sono trascorsi due anni dai bombardamenti dell’operazione israeliana Margine Protettivo. La Striscia di Gaza fu devastata come mai prima. Ad oggi solo un quarto delle case è stato ricostruito.
Sono trascorsi due anni dall’operazione israeliana Margine Protettivo, che (come rappresaglia al lancio di razzi dalla Striscia verso centri abitati in Israele – ndr) in 51 giorni, dall’8 luglio al 26 agosto 2014, devastò, come mai prima, la Striscia di Gaza. Il bilancio finale fu terribile: oltre 2.200 morti palestinesi (quasi 1.500 i civili), 72 gli israeliani (di cui 66 soldati).
A due anni di distanza, però, quell’operazione non dà ancora tregua. Pochi giorni fa tra le macerie del quartiere di Shajaiya, est di Gaza City, sono stati ritrovati resti umani. Uno scheletro è riemerso da una casa distrutta, in una delle zone più devastate dall’offensiva: il quartiere scomparve, letteralmente, dopo giorni di bombardamenti tanto intensi da impedire l’ingresso di ambulanze e giornalisti.
Quel corpo ha ricordato a tutti che Margine Protettivo non è mai finita. Sono decine i palestinesi di Gaza mai ritrovati, ancora oggi considerati dispersi. Molti di loro sono, probabilmente, ancora nascosti dalle macerie, mai rimosse del tutto, altri sarebbero nelle mani delle autorità israeliane. Mai riconsegnati, né vivi né morti, nonostante le ripetute richieste di informazioni.
Tra loro c’è Noor Omran. Aveva 16 anni e viveva a al-Qarara, vicino Khan Younis, nel sud della Striscia. Il 23 luglio aveva preso la moto per andare nella fattoria di famiglia a controllare se fosse stata colpita. Non sapeva che le truppe israeliane stavano invadendo la zona via terra. Non è mai tornato a casa: la famiglia ha ritrovato la moto, intatta, ma di Noor nessuna traccia. La Croce Rossa ha consegnato a Israele il Dna del ragazzo perché verificasse se fosse tra i prigionieri vivi o quelli morti (secondo gli israeliani sono 19 i corpi dei palestinesi uccisi nel 2014 ancora in mano alle autorità israeliane), ma nessuna risposta è stata data. Un’altra ragione di dolore, che procrastina all’infinito il ritorno alla normalità.
Di normale non c’è niente a Gaza. Se ad aprile le Nazioni Unite facevano sapere che il 97 per cento delle macerie era stato rimosso (spesso con un carico potenziale di morte, migliaia di ordigni e missili inesplosi), servirebbero ancora 14 milioni di dollari per finire il lavoro. Ma di soldi non ce ne sono: ad ottobre 2014 la comunità internazionale promise di donare 5,4 miliardi di dollari per ricostruire Gaza, ma ad oggi meno del 40 per cento del denaro è stato effettivamente consegnato.
Per questo Margine Protettivo colpisce ancora: a due anni di distanza sono state ricostruire meno di 3 mila case su un totale di 12.576 abitazioni completamente distrutte e 6.455 gravemente danneggiate e inabitabili. A monte un mix di ritardi voluti e burocrazia che soffoca: alla mancanza dei fondi promessi dalla comunità internazionale, si aggiunge lo stop all’ingresso di cemento e materiali di costruzione da parte di Israele. A primavera sono state bloccate le consegne – tutte ovviamente gestite da Israele – perché i materiali sarebbero stati usati per ricostruire i tunnel di Hamas e non le abitazioni civili.
«Tutto è sotto il controllo di Israele – ci spiega J. A., cooperante che preferisce restare anonimo – Decide se fare entrare il cemento o no, senza che alcun soggetto internazionale possa fare pressioni. E ci guadagna molto: considerate che il 70 per cento del costo di un edificio va per i materiali da costruzione. Con i tunnel per l’Egitto ormai inesistenti e il valico di Rafah [tra Gaza e Egitto] chiuso, il cemento entra solo da Israele».
«I gazawi devono affontare un sistema complesso e farraginoso: la ricostruzione delle abitazioni civili è affidata alle stesse famiglie. Tranne per le case dei rifugiati, di cui si occupa l’agenzia Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa), spetta agli stessi proprietari ricostruire registrandosi in un complesso meccanismo burocratico creato dall’Onu».
Il cosiddetto Meccanismo per la ricostruzione di Gaza (Grm), prevede che la famiglia si registri al ministero dei Lavori Pubblici per essere inserita in una delle liste di donatori diretti (Kuwait e Qatar che hanno messo a disposizione fondi speciali): «A quel punto si indica il materiale necessario, quantità e natura, e si aspetta. Si aspetta che i donatori paghino, si aspetta che Israele lo consegni ai distributori dentro Gaza». Un’attesa che per la maggior parte della popolazione di Gaza non è mai terminata: lo dicono i numeri, solo 3mila case ricostruite.
La soluzione è l’affitto che da due anni migliaia di famiglie sono costrette a pagare in attesa di poter ricostruire casa propria. «Così si spiega l’elevatissimo tasso di indebitamento delle famiglie gazawi – annota J.A. – Prendono prestiti per pagare l’affitto o per iniziare a ricostruire in attesa delle donazioni. Ma spesso non bastano: così si ritrovano con una casa ricostruita a metà e senza soldi per restare in affitto. Non è un caso che dall’inizio dell’anno si siano registrati 35 casi di tentato suicidio e 5 di suicidio, numeri senza precedenti per Gaza».
Un peso enorme, soprattutto tenendo conto degli ultimi dati dell’Ufficio centrale di statistica palestinese: il tasso di disoccupazione nella Striscia è pari al 41,2 per cento tra gli uomini e al 62 per cento tra le donne. L’economia è collassata, le fabbriche distrutte, le terre inaccessibili perché situate lungo il confine che Israele ha unilaterlamente dichiarato «zona cuscinetto». Per questo, dice l’Onu, l’80 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria.