A 22 anni dal cessate il fuoco in Nagorno Karabakh, il conflitto si riaccende periodicamente, con attacchi, combattimenti e, non di rado, vittime armene e azere.
Sono passati 22 anni dalla “fine” della guerra del Nagorno Karabakh, eppure quello che a più riprese è stato definito un «conflitto congelato», ancora oggi resta in regime di cessate il fuoco, e si riaccende periodicamente, con attacchi, combattimenti e, non di rado, vittime armene e azere lungo i 160 chilometri della militarizzata linea di contatto.
A riportare, pochi giorni fa, l’attenzione su quest’area del Caucaso, è stata l’azione di un gruppo armato a Yerevan, capitale dell’Armenia: una stazione di polizia in periferia, a Erebuni, è stata presa d’assalto il 17 luglio scorso, con alcuni agenti trattenuti in ostaggio ed una vittima. Gli insorti chiedono la liberazione di Jirair Sefilyan, veterano di guerra in Karabak, arrestato un mese fa per trasporto illegale di armi, e strenuo oppositore di qualsiasi eventuale accordo di pace fra Armenia e Azerbaijan. I fatti della caserma, che tra l’altro era uno dei più forniti depositi di armi di Yerevan, hanno offerto ad alcune centinaia di persone il pretesto per scendere in piazza contro il governo e chiedere le dimissioni del presidente Serz Sargsyan.
La situazione di crisi del Nagorno Karabakh, che appena quattro mesi fa ha fatto registrare un’escalation di violenza fra le più sanguinose dalla firma della tregua, pesa sulla politica dell’Armenia, impegnata a sostenerne la causa di indipendenza, e che ancora oggi si trova, a sua volta, in bilico fra l’isolamento provocato dalla chiusura dei confini con Azerbaijan e Turchia, una forte dipendenza dalla Russia e gli effetti della stagnazione economica.
Una condizione di esclusione che gli armeni del Karabakh conoscono bene: questa piccola repubblica autoproclamata nel 1991 e mai riconosciuta da nessuno stato al mondo, è tuttora rivendicata dall’Azerbaijan come parte del proprio territorio. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, qui si è consumato un conflitto che ha provocato 30 mila vittime e un milione di sfollati. Alla firma del cessate il fuoco nel 1994 avrebbe dovuto fare seguito, in tempi brevi, un accordo di pace che non è mai arrivato, e il Nagorno Karabakh con sette distretti vicini, prima abitati quasi interamente da azeri, è rimasto sotto il controllo delle forze armene.
L’intero territorio, 12 mila chilometri quadrati, è oggi popolato da 120 mila persone, tutti armeni, dopo l’esodo degli azeri. Dal 1992 l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), attraverso il Gruppo di Minsk, è responsabile della mediazione per una risoluzione, ma il processo è ormai in stallo da tempo, anche per lo scarso interesse dei Paesi partecipanti – Russia in testa – a scontentare i contendenti.
Nel frattempo gli abitanti del Nagorno Karabakh, fuori dal centro della capitale Stepanakert, cittadina di 50 mila abitanti, vivono ancora prevalentemente di agricoltura e pastorizia, anche se la scelta più “naturale” dei giovani, dopo due anni di leva obbligatoria, è quella di entrare nell’esercito.
I pochi investimenti economici sono prevalentemente dirottati sul settore militare, ma la guerra, lungo questo confine, si combatte ancora in trincea. I soldati, per la maggior parte poco più che adolescenti, si alternano ai posti di guardia monitorando un nemico distante, in alcuni punti, solo un’ottantina di metri da loro. Può accadere che per ore, giorni, non accada nulla e che poi si sia colti all’improvviso da un colpo di mortaio, o dal fuoco di un cecchino.
Ogni famiglia qui ha almeno un parente che indossa la divisa, o che l’ha indossata in passato fra il 1992-1994, e che a 25 anni dall’indipendenza, pure se unilaterale, spera in una pace sempre più lontana.