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Da Holot teatro, e cinema, degli oppressi

Federica Sasso
22 agosto 2016
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Da Holot teatro, e cinema, degli oppressi
Giugno 2015. Coordinati da Chen Alon e Avi Mograbi, attori israeliani e profughi internati a Holot vanno in scena nei pressi del campo. (foto Hadas Parush/Flash90)

Il campo di Holot è nel deserto del Neghev. Vi sono confinati migliaia di richiedenti asilo giunti in Israele. Dai loro racconti sono nati un lavoro teatrale e un film. Ce ne parlano i due registi.


«Che differenza fa? È vero, posso camminare nel deserto, ma è come se fossi in prigione, semplicemente in una più grande», spiega Anwar Suliman alla telecamera che lo segue mentre cammina su una delle strade polverose attorno ad Holot. Siamo nel deserto del Neghev, vicino alla frontiera con l’Egitto. Qui nel 2013 il governo israeliano ha aperto il centro in cui detiene circa 2.500 dei 44 mila richiedenti asilo presenti nel Paese (a dicembre del 2015 la struttura era piena e ha toccato quota 3.600 persone), per lo più eritrei e sudanesi in fuga da una dittatura e un genocidio feroci. I cicli di detenzione possono raggiungere i 12 mesi, e succede che qualcuno venga rimandato quaggiù più di una volta.

Holot non è un carcere, ma un «centro di detenzione aperto», tra un appello e l’altro gli «ospiti» possono uscire all’esterno del complesso. Solo che senza denaro o mezzi di trasporto il deserto circostante diventa una prigione per i richiedenti asilo come Suliman. Per oltre un anno però lui e altri detenuti hanno passato le ore di libertà in un hangar abbandonato vicino a Holot, mettendo in scena le proprie storie sotto la guida del regista teatrale Chen Alon e davanti alla telecamera del documentarista Avi Mograbi. Il risultato è Between Fences, un documentario e una performance che stanno girando i teatri di Israele e i festival internazionali.

L’idea di andare a vedere con i propri occhi come si vive a Holot è venuta a Mograbi, uno dei documentaristi più sperimentali e anche più critici di Israele. Nel 2013, quando le autorità avevano appena aperto il centro di detenzione, Mograbi lesse sui giornali la storia di un gruppo di rifugiati eritrei costretti a rimanere per otto giorni fra il confine egiziano e quello israeliano. «Alla fine una decisione della Corte suprema sbloccò la situazione, ma l’esercito concesse il passaggio solo ad alcuni membri del gruppo, rimandando indietro 18 persone», ricorda Mograbi. «Per me questa è una storia ebraica. Un episodio che mi ha riportato alla Seconda guerra mondiale, quando gli ebrei tedeschi e francesi arrivati alla frontiera con la Svizzera furono respinti. E così mi sono chiesto come sia possibile che noi israeliani, che viviamo in questo Paese fondato da un popolo di rifugiati, non riusciamo a essere empatici con chi è in fuga, ma non è ebreo».

Mograbi, Alon e una piccolissima troupe, hanno iniziato a percorrere le due ore di macchina tra Tel Aviv e Holot più volte a settimana, «prima di tutto per dire ai detenuti: non siete stati dimenticati, vi vediamo e vi ascoltiamo», spiega Chen Alon, regista e attore che da anni utilizza le tecniche del Teatro dell’Oppresso, elaborate dal brasiliano Augusto Boal. Ci è voluto parecchio prima di stabilire un contatto e iniziare a filmare con gli «ospiti» del campo: «non era affatto chiaro se quello che volevamo fare fosse utile o ben accetto», racconta Mograbi. Dopo qualche mese però si è formato un gruppo stabile ed è iniziato il workshop teatrale guidato da Alon, grazie al quale i richiedenti asilo hanno potuto raccontare le proprie storie di emigrazione forzata e la discriminazione da parte del governo di Israele, che ha deciso di trattare queste persone in fuga come «infiltrati» pericolosi.

Le tecniche del Teatro dell’Oppresso servono a stabilire un percorso terapeutico attraverso l’immedesimazione e il gioco dei ruoli, e Alon spiega che l’idea di fondo è di «creare un processo di riconciliazione fra i rifugiati e la società israeliana». Il regista racconta che uno dei momenti cruciali è stato quando ha chiesto al gruppo: «Avendo a disposizione un palcoscenico per spiegare agli israeliani il vostro punto di vista o raccontare la vostra storia, come lo fareste?». A quel punto uno degli «attori» ha risposto che per descrivere la realtà da cui sono fuggiti metterebbe un dittatore su una sedia, intento a mangiare una banana mentre tutti gli altri attorno muoiono di fame e urlano per le sofferenze. Questa e molte altre scene sono presenti in Between fences, perché mentre il workshop avanzava Mograbi filmava. Il documentario, che ha debuttato alla Berlinale 2016, ci accompagna attraverso le tappe con cui ha preso corpo la performance che i richiedenti asilo hanno già portato in scena una trentina di volte in Israele. «Ci siamo mossi seguendo l’evoluzione delle cose, senza avere in mente a priori la struttura del film», spiega Mograbi.

Dopo qualche tempo ai rifugiati si è aggiunto un gruppo di non-attori israeliani che hanno scelto di partecipare al progetto, e questo ha rappresentato un nuovo inizio. «Ci sono voluti mesi per comprendere che il problema di Holot è anche nostro», afferma Alon. «Siamo cittadini di uno Stato democratico e l’esistenza di un centro come questo è anche una nostra responsabilità. L’unica cosa efficace per sconfiggere la disperazione è creare una comunità in cui questi uomini sentano di non essere stati dimenticati, e che consenta a noi israeliani di collaborare per cambiare la loro situazione».  

Nel giugno scorso Israele ha concesso lo status di rifugiato a Muntasim Ali, il primo sudanese a vedersi riconoscere questo diritto. Lo Stato ebraico è tra i firmatari della Convenzione per i rifugiati, ma secondo Hotline – una delle organizzazioni israeliane più importanti tra quelle che offrono aiuto e consulenza legale ai richiedenti asilo – negli anni ha accolto meno dell’1 per cento delle richieste.

Mograbi afferma che «è davvero difficile capire come una società che ha chiesto al mondo di immedesimarsi nella sua storia di persecuzione oggi sia indifferente al dolore degli altri» e che l’altro grande obiettivo di Between Fences era proprio quello di creare empatia. Alon riconosce che buona parte del pubblico che assiste alle proiezioni e agli spettacoli è già convinto che la discriminazione nei confronti dei richiedenti asilo sia sbagliata, ma crede che «una strategia efficace non sia tanto convincere chi la pensa diversamente da noi. Piuttosto dobbiamo riuscire ad attivare le energie delle persone che condividono il nostro punto di vista, ma magari restano sedute a casa loro con le mani in mano».

Seguendo le linee del Teatro dell’Oppresso, Between Fences trasforma gli spettatori in attori, proponendo uno scambio di ruoli e la possibilità di immedesimarsi. «Chi ha visto il film e partecipato alla performance si è reso conto che esiste un’alternativa a questa situazione orribile, e moltissimi sono venuti a domandarci cosa possono fare», prosegue Alon. «Le opportunità sono tante, dal lavoro con gli asili a sud di Tel Aviv che accolgono i rifugiati, al volontariato con le organizzazioni che si occupano degli aspetti legali». Il regista è uno dei cofondatori di Combatants for Peace, l’organizzazione composta da ex soldati israeliani e combattenti palestinesi che hanno deciso di impegnarsi per il dialogo, e per esperienza sa che non perdere di vista l’umanità dell’altro è fondamentale. Per lui quindi «aver tirato giù i muri fra israeliani e rifugiati organizzando insieme questi eventi significa moltissimo nella lotta contro la disumanizzazione, quella che consente al governo di discriminare i richiedenti asilo e violare i loro diritti umani».

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